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Cóme ’l dialèto v’a sparì

Rubrica: con gli occhi di Alice
come l dialeto v a spari altrapagina mese marzo 2021 2Il sostantivo biscio indica in dialetto castellano un figlio di padre ignoto. Può facilmente assumere una valenza ingiuriosa, come documenta un battibecco effettivamente avvenuto tra due signore del luogo. Così si rivolse la prima alla seconda: ’N te vergòggni che cj hè’ trè fjóli e tutt’e trè bissci sènsa ’l babo? A cui fu risposto: Pènsa pe’ la tu’ fjóla che co ’m bisscio ci ha fato la tròia fin’a iér l’altro! Sembra quasi di imbattersi in un brano ricavato dai versi di Carlo Porta o di G. G. Belli, non tanto per un’ipotizzabile poeticità dell’espressione quanto per la forza comunicativa della vena dialettale, capace di farsi portatrice di un’immediatezza umana, di una gaia corrosività, tale da toccare nell’uditorio un’area di sensibilità largamente impenetrabile al codice ufficiale dell’italiano standard.

La fortuna di un dialetto dipende in egual misura dal numero di utenti e dal successo letterario che gli arride. Il numero di parlanti madrelingua del castellano non ha mai ammontato a più di qualche migliaio di individui; inoltre, l’idioma – analogamente alle altre città umbre – non ha sinora dato i natali a un poeta accostabile a un Porta, Belli, Di Giacomo o Tessa. Anche ammesso che le cose dovessero configurarsi diversamente, è evidente che ogni parlata di minoranza soccomberà prima o poi a un’egemonia aliena: ne erano ben istruiti, almeno una volta, gli allievi del liceo classico, obbligati com’erano ad approfondire le idiosincrasie di quell’ionico, dorico e eolico in seguito debilitati dal diffondersi mediterraneo della koinè. Una riflessione che si impone, poi, ancor più nell’era della globalizzazione talché, secondo una previsione ragionevole, nel giro di qualche decennio la lingua adoperata dai tifernati più anziani verrà integralmente soppiantata da una sempre più americanizzante, politically correct ed eunucoide lingua nazionale e, a lungo andare, da un’altra addirittura sovranazionale (l’inglese, il cinese, una a oggi imprevedibile fusione tra le due superlinguae?).

L’inevitabilità del declino e dell’estinzione di un mezzo di comunicazione minoritario non basta a cicatrizzare la perdita subita. Ecco perché è da accogliere con piacere la recente comparsa del primo vocabolario di ampie dimensioni dedicato specificamente al dialetto castellano, abilmente realizzato da Francesco Grilli nell’arco di ben trentaquattro anni di fatica (Edizioni Nuova Prhomos, 2019).

Anche a prescindere da macrofenomeni fonetici (si pensi al turbamento dell’a tonica seguita da consonante scempia, casa → chèsa), morfologici (l’infinito in –è, ad es. lessè) e lessicali (la a in prostesi, ad es. guardare → aguardè, la metatesi di ri- in ar-, ad es. ritrovare → artrovè, prefisso d’altronde comune anche al vicino perugino), il volume di Grilli, sedicesima uscita dell’Opera del vocabolario dialettale umbro, fondata da Francesco A. Ugolini e oggi diretta da Enzo Mattesini, restituisce un quadro prevedibilmente screziato degli elementi morfologici, lessicali e anche sintattici del dialetto tradizionalmente adoperato dagli abitanti di Città di Castello e del contado circostante. A riferire qualche esempio: la Carolina, vocabolo desueto per denotare un carro che una volta trasportava i morti meno abbienti al luogo di sepoltura; la locuzione figurata co ’sti chjèri de luna nel significato di “data la situazione gravosa, non bisogna pretendere troppo”; il proverbio incluso sotto il lemma fème, l’amóre è ’nna gran cósa, ma la fème è ’n’antra cósa!, come per dire, “certe esigenze fisiche hanno precedenza sulle emozioni più alte” (qui Grilli cita opportunamente il tragico episodio del conte Ugolino: «Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno»).

Il volume in oggetto è peraltro arricchito di una morfologia della coniugazione del verbo castellano e di un apparato iconografico intitolato Cóme ’l dialèto v’a sparì, quèsta è la cità che ’n s’artróva pió ’n vèle (“da nessuna parte”); le singole fotografie sono accompagnate da didascalie in castellano, già di per sé una valida esemplificazione linguistica. Ripiegata in fin di volume, può sfuggire a un primo sguardo cursorio una carta toponomastica popolare del Tevere a Città di Castello, da Gabine a Rivoltóni.

Nella realizzazione del suo monumentale vocabolario Grilli – già autore di una traduzione in vernacolo del Pinocchio collodiano (1998) e di un dizionario ragionato di oltre cinquecento espressioni dialettali tifernati (2007) – ha fatto ricorso a una memoria a dir poco fenomenale, raccogliendo i frammenti di un patrimonio linguistico trasmessogli in larga parte dai genitori, apparentemente sterminato e, beninteso, sempre disponibile a ulteriori ampliamenti. Nell’atto di codificare il dialetto patrio, ha reso un servigio prezioso alla conservazione di un capitale in grave pericolo; future generazioni di lettori, ignare di come i tifernati si facevano intendere nel periodo tra il Regno d’Italia e l’età informatica, potranno servirsene per misurare il diametro della voragine glottologica che si aprirà; allo stesso tempo potranno avventurarsi in un microcosmo gnoseologico di idee e modi di percezione preservati nei vari proverbi e modi di dire registrati da Grilli. Sarebbe superfluo aggiungere che ogni cittadino dell’Alta Valle del Tevere dovrebbe acquistare copia del nuovo vocabolario, anche per tramandarne il contenuto ai figli e ai nipoti. ◘

di John Butcher


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