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Una economia del ben-essere

Intervista a GIULIO MARCON, scrittore e saggista.

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Con Giulio Marcon, scrittore e saggista, portavoce della campagna “Sbilanciamoci”, intratteniamo una appassionata conversazione sul tema dell’economia.

Lei parla di una nuova economia che metta al primo posto non i beni da produrre, ma il grado di felicità che possiamo raggiungere. È un’utopia?

«Non è un’utopia, è una necessità. Viviamo in un mondo attraversato da tante infelicità, da tante diseguaglianze, dalla povertà, dalla preoccupazione che il nostro pianeta sia colpito irreversibilmente dal cambiamento climatico. Il desiderio di un’economia fondata sulla felicità è sempre più realistico. D’altronde il diritto alla felicità è sancito dalla Costituzione americana e negli ultimi anni sempre più economisti lo hanno usato come parametro per misurare il benessere. Il ben-essere è stato contrapposto al ben-avere, che ha caratterizzato una cultura economica consumista ed energivora.

Per raggiungere un’economia del ben-essere bisogna cambiare molto, quasi tutto, perché l’attuale economia fondata sul modello neoliberista offre una parvenza di felicità per pochi e un disagio per tanti. Dico parvenza perché è basata sul consumismo, sul possesso, sull’illusione che disponendo di molti beni si possa raggiungere la pienezza dell’essere. Dobbiamo compiere ancora molti passi per realizzare un’economia nuova di questo tipo. Non può essere imposta, deve essere desiderabile. È quello che affermava Alex Langer a proposito della conversione ecologica. Penso che ci stiamo arrivando, perché molte persone comprendono sempre più che il mero possesso di beni non rappresenta la garanzia di una vita degna di questo nome, che invece va fondata sulla solidarietà, sulla convivialità, sull’espressione del proprio essere.  E qui tornano anche gli insegnamenti di Erich Fromm, Ivan Illich e di tanti altri. Stiamo attraversando molte crisi che si sovrappongono: la crisi economica, la crisi sociale, la crisi climatica e ora anche quella pandemica; tutte queste crisi ci indicano la necessità di una strada nuova, un obiettivo non utopico, ma necessario».

È possibile mantenere un equilibrio tra le necessità produttive e i limiti delle risorse, tra i bisogni nutritivi e l’integrità del creato? Occorre un’altra visione?

Secondo me, costruire un altro modello, un altro paradigma è possibile. Quando prevalgono gli interessi di pochi, rivolti al profitto, il mondo non può essere in equilibrio. Se invece prevalgono gli interessi dei molti, orientati al bene comune, allora un mondo in equilibrio diventa realizzabile. Possiamo produrre tanti beni, alcuni sono utili, altri non lo sono. Abbiamo delle produzioni che inquinano e sono sussidiate dallo Stato, abbiamo produzioni di armamenti che certamente non sono un bene per l’umanità, abbiamo produzioni farmacologiche derivanti dal disagio psicologico e sociale delle persone, che certamente non sono un indice di benessere. Le stesse tecnologie usate per le armi possono essere utilizzate per le produzioni civili.

Bisogna interrogarsi su cosa produrre e cosa consumare e ciò ci obbliga a rivedere stili di vita e comportamenti. È indispensabile produrre di meno e solo cose che servono. Oggi siamo inondati dal superfluo, alimentato solo dalla ricerca del profitto. Abbiamo avuto in passato dei gruppi imprenditoriali che per la loro formazione politica o religiosa (pensiamo ad Olivetti, Pirelli, Marzotto) hanno avuto sempre un’idea di benessere generale per tutta la comunità che i manager di impresa di oggi non hanno più».

L’ecologia integrale descritta dalla Laudato si' si basa non tanto sul consumo e sulla competizione, ma sulla cooperazione e sulla sobrietà. È un ribaltamento radicale?

«È un ribaltamento radicale e necessario, un processo che va costruito radicandolo nelle coscienze, nelle abitudini e nei comportamenti economici e soprattutto politici.

L’ecologia integrale è una strada che dobbiamo percorrere fino in fondo e riguarda tutti noi cittadini che nel corso del tempo siamo stati trasformati in consumatori e clienti. Il mercato ha penetrato anche il linguaggio comune. Una volta si parlava di diritti, oggi si parla di bisogni, prima si parlava di cittadini, oggi di consumatori. Qualche tempo fa mi è capitato di trovare in una legge finanziaria la definizione di “consumi sanitari”, il cittadino è visto come consumatore di sanità, non come persona che ha diritti. Il concetto di profitto ha pervaso ogni cosa, poggiando sull’architrave del consumo. L’ecologia integrale deve uscire dal vicolo cieco che ci ha condotto allo sfruttamento del pianeta. La Laudato si' è fondamentale perché ci invita a costruire un’economia di giustizia, un concetto indissolubile da quello di sostenibilità. La lotta alle disuguaglianze è necessaria; il principio di giustizia si coniuga a quello di solidarietà a cui la nostra Costituzione dà tanta importanza».

Come è possibile coniugare sobrietà e lavoro per tutti? Andremo incontro a una disoccupazione crescente, nonostante l’impiego della tecnologia?

«La sobrietà è un principio fondamentale. In passato la si definiva austerità, in modo forse un po’ riduttivo. I consumi privati e la produzione di merci non si possono espandere all’infinito. Se siamo nella condizione attuale è perché si è seguita la strada dell’hybris, dell’illimitatezza. È una tracotanza dell’economia fondata sull’idea che i profitti devono essere sempre al primo posto. In questo contesto il lavoro deve cambiare radicalmente, per dare la possibilità a tutti di avervi accesso. Nel corso degli anni si è precarizzato, si è ridotto a pura merce; il mercato del lavoro è diventato mercato dei lavoratori; lo sfruttamento si è dilatato e l’azione sindacale è difficilissima in un contesto frammentato e reso più fragile. Si deve recuperare il vecchio slogan “lavorare meno per lavorare tutti”, le persone dovrebbero avere più tempo per la realizzazione di quei desideri che danno senso all’esistenza e la possibilità di espandere la propria vita al di fuori dell’orario di lavoro, attraverso il volontariato di comunità e la convivialità. Occorre rimuovere la separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro, cambiare l’organizzazione del lavoro, rafforzando i diritti dei lavoratori attraverso la partecipazione diretta alle scelte delle imprese. Anche la diffusione di forme di proprietà di carattere cooperativo aiuta a vivere il lavoro non come estraniazione o alienazione, ma come parte importante della propria vita».

Lei ritiene ancora possibile concepire in modo nuovo il lavoro, il mercato e la comunità? In che modo?

«C’è un’esigenza che nasce dal basso, dalle sofferenze che si sono manifestate in questi anni. C’è molta preoccupazione, ma la crisi in atto può spingere a cambiare rotta. Questa esigenza di un cambiamento radicale si fa strada in tanti luoghi del mondo. Naturalmente ci troviamo di fronte degli avversari che non mollano la presa perché coltivano ancora il profitto, lo sfruttamento, l’egoismo. Però il messaggio di papa Francesco ci incoraggia. Noi abbiamo il dovere di muoverci in quella direzione, anche se in questi anni siamo stati assediati dai killer della speranza che vogliono farci rassegnare.  Ma dobbiamo combatterli e riscoprire la solidarietà e l’impegno comune». ◘

di Achille Rossi


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