A contatto col disagio
Il 13 novembre 2019 erano trent’anni che la sede del Centro di Solidarietà di Arezzo a Città di Castello (popolarmente detto Ceis) aveva aperto la sua attività di recupero delle persone tossicodipendenti e alcooldipendenti. Ne parliamo con Don Paolino Trani presente fin dall’inizio, prima come responsabile della Comunità di accoglienza, poi come presidente della struttura.
Allora, Don Paolino, una panoramica di questi 30 anni!
«Sono stati anni intensi, impegnativi, a volte estremamente faticosi. La tossicodipendenza esprime in modo amplificato i vuoti, i disorientamenti, le istintività dei comportamenti sociali, con persone che mettono in gioco la loro vita con l’uso di sostanze stupefacenti, di cui gradualmente diventano succubi. All’inizio c’era entusiasmo, anche perché la tossicodipendenza era avvertita come un problema della società nel suo complesso. Poi quando ci si è resi conto che per uscire dalla dipendenza il percorso era spesso molto più lungo del previsto e che le ricadute erano sostanzialmente normali, molti volontari si sono tirati indietro e le famiglie facevano più fatica a seguire gli stessi figli.
Quante persone sono passate in questa struttura e quanti sono usciti dalla tossicodipendenza?
«In questi trent’anni sono entrate in questa struttura almeno 1300 persone prevalentemente dall’Umbria e dalla Toscana e un po’ da tutta Italia. Dai 18 ai 55 anni, con una media prevalente sui 30 e 40 anni e una prevalenza di uomini rispetto alle donne. Come d’altra parte nelle carceri: 5 uomini e 1 donna, in perfetta media nazionale. Convivenze strane, spesso improvvisate. Per il momento non abbiamo trovato altre forme per aiutare le persone a guardarsi dentro e capire che al mondo ci sono anche gli altri che possono aiutarci e che possiamo aiutare. Questa è la nostra filosofia, che poi è la filosofia della vita.Quanto ai risultati bisogna intendersi. Intanto è già una buona cosa che persone problematiche e seriamente ferite nel corpo e nello spirito accettino di entrare in comunità e vivere insieme ad altri con regole precise, a partire dalla totale assenza di droghe e alcolici vari. Se poi uno prende coscienza del suo essere dipendente e del suo bisogno di aiuto (è sempre la cosa più difficile!), può seriamente fare un percorso di recupero e arrivare a vivere l’esistenza in modo dignitoso e responsabile.Ci possono essere ricadute e ripensamenti, perché è sempre più complicato fare i conti con la propria fragilità, ma l’importante è chiedere aiuto e non arrendersi mai. In questo momento un buon numero di persone, passate da noi stanno bene e vivono normalmente la loro vita. Altre, vanno di comunità in comunità o entrano ed escono dal carcere, senza ancora riuscire a trovare una via d’uscita definitiva dalla loro dipendenza.Altre trovano pace solo nella morte, non essendo riuscite a far pace con se stesse e con gli altri nella vita».
Quante persone hai conosciuto che poi sono morte?
«Una quarantina morte per droga o per malattie indotte dall’uso di sostanze. Di molti di loro ho celebrato il funerale. A volte con la sensazione che più di così loro non potevano fare. Tale è la devastazione che l’uso di droghe può produrre in una persona».
Sembra, anzi è sicuro, che l’uso di droghe ora sia aumentato. Tutto questo impegno per che cosa?
«Certo se guardiamo l’uso di cocaina in questi ultimi anni ha avuto un aumento esponenziale, perché è alla portata di tutti e a prezzi accessibili. E tutti sappiamo che sniffare cocaina è diventata una moda in vari strati sociali, perché è ritenuta un sostegno all’immagine sociale di cui oggi molti vivono.Ci chiamano anche nelle scuole a raccontare la nostra esperienza per mettere gli adolescenti in guardia. Ma la vera prevenzione è trovare tempo per il dialogo, per il confronto, nella scuola come nella famiglia e nei gruppi umani di qualsiasi tipo. La vera emergenza è sempre educativa. E c’è tanto bisogno di educatori e animatori per tutte le categorie sociali. Bisogna investire più nella scuola e nell’educazione in generale. Tale investimento ritorna vantaggioso più avanti in diminuzione di spese sanitarie, legali e carcerarie. Finché i politici cercano continuamente il consenso immediato, faticheranno a investire nella scuola e nell’educazione, settori nei quali i risultati arrivano più avanti nel tempo».
Comunque voi continuate nonostante tutto nel vostro impegno di accogliere persone che chiedono aiuto e ricorrono alla vostra attenzione.
«Certamente! Riconosco che 30 anni sono già un bel traguardo. Perché questo, in una struttura privata che si regge sul finanziamento dello Stato che ci dà un tot al giorno per persona accolta, con cui paghiamo regolarmente gli operatori; sull’aiuto della Diocesi di Città di Castello che ci offre pressoché gratuitamente gli ambienti su cui portar avanti la quotidianità della vita comunitaria; nel volontariato, cioè su alcune persone che danno il loro contributo senza ricevere stipendio.Finché regge questo equilibrio organizzativo, è un dovere per noi continuare perché siamo convinti che strutture come le nostre sono ancora necessarie: i trent’anni trascorsi ce lo confermano.Vorremmo anche rianimare lo spirito del volontariato che ultimamente sembra latitare. E non per mancanza di tempo, ma per carenza di motivazioni profonde per l’aiuto al prossimo. E questo provoca una caduta di umanità le cui conseguenze si vedono nell’aumento della paura del diverso, dell’indifferenza, della superficialità e una comunicazione sempre più povera. Abbiamo tutti bisogno di un sussulto di umanità e di fiducia. Personalmente sono proprio contento di essermi impegnato in questo lavoro per trent’anni. Consapevole, onestamente, che è più quello che ho ricevuto di quello che ho dato. Qualche volta uno è stanco anche perché c’è pure l’età di mezzo. Poi succede sempre qualcosa che ti ridà forza ed energia. Allora ci si riprende e si continua»
.C’è qualcosa di particolare che emerge da un’esperienza come questa?
«Sì, l’importanza di lavorare insieme. Lavorare insieme all’interno della comunità e lavorare con le strutture private e pubbliche che si interessano di questi problemi. Quando i problemi sono rilevanti, e qui lo sono spesso, è necessario assolutamente mettersi a confronto e vedere quello che si può fare con i mezzi che abbiamo. Anche una sola struttura a volte non riesce a rispondere adeguatamente ai bisogni del momento. Anche i servizi pubblici adeguati (Sert e psichiatria) a volte hanno notevoli difficoltà. Se ci si confronta e ci si ascolta, una soluzione si riesce sempre a trovare.Certo il pubblico sente mancanza di risorse economiche, che invece dovrebbero aumentare, considerato che un uso prolungato di sostanze tende a rendere psichiatriche le persone.D’altra parte anche in tanti casi umani il lavoro d’insieme è importante, anche se a volte dà l’impressione di rallentare i movimenti, ma a lunga distanza è sempre la cosa migliore».
A cura della Redazione l'Altrapagina