Già, proprio così, come dice il titolo: Jolanda non era la figlia del Corsaro Nero di salgariana memoria, bensì della spumeggiante e giunonica Angelica, conosciuta come la “signora di via della Braccina”, una strada senza capo né coda alle spalle di “piazza di sotto”, la più bella piazza di Città di Castello, dove Angelica era il valore aggiunto. Bella e nubile, che lei trasformava in “nobile”, il portamento da gran signora lo aveva per davvero, anche se i costumi erano leggermente sfilacciati.
Agli albori del Novecento Angelica mise al mondo Jolanda, una bella bimba alla quale non faceva mancare niente, o quasi. Non sapeva rispondere alla figlia che più cresceva più chiedeva chi fosse il babbo. A dir la verità era una domanda che si poneva anche la mamma, non riuscendo a raccapezzarsi. Già, chi era? Da escludere il Corsaro Nero perché lei ai Caraibi o alle Antille non c’era mai stata. Forse il farmacista, l’avvocato…o il traffichino di polli della Scarzola. Oddio, e se fosse quello del Borgo che veniva il sabato a Castello a vendere le cipolle? Speriamo di no! Mah… un ’campionario’ così vasto nel quale la signora della Braccina si perdeva. Come si perdevano le risposte alla figlia, sempre più imbarazzanti e vaghe.
Con questi interrogativi Angelica si dimise da questo mondo lasciando Jolanda ormai diciottenne, con l’assillo del babbo e un ricco libretto al portatore alla Cassa di Risparmio, nonché il menzionato “campionario”, aggiornato ai figli dei suoi abituali amici ormai rincoglioniti e passati di cottura.Jolanda, oltre che bella e raffinata era romantica e sognatrice. Non avendo notizie del babbo se ne inventò uno a sua misura: fantasticava di essere la figlia del barone Leopoldo Franchetti, padrone della Montesca, e che questi l’avrebbe riconosciuta, sangue del suo sangue, se quel giorno del 1917 non si fosse sparato alla testa. Era giovane Jolanda, avvenente. Entrò nella grazia della ‘città bene’ e in quella ‘così così’; era lei la più desiderata al “ballo dei signori”, su al circolo tifernate di “piazza di sopra”, o all’esclusivo “veglione tricolore” al teatro dei signori accademici illuminati, ospite del Podestà nel palco centrale. Lei fu invitata dal federale fascista di Perugia a una cena esclusiva all’albergo della Cannoniera. Via della Braccina ormai era solo un ricordo. Con i suoi primi risparmi Jolanda si regalò una civettuola casetta dalle parti della Montesca, fantasticando la sua paternità in quei luoghi.Improvvisamente entrò nella sua vita il sor Silvio, un agrario ricco e gaudente di mezza età al quale Jolanda dimezzò il portafogli. Il sor Silvio, un d’annunziano di provincia che del Vate aveva preso solo il lato edonistico, sfrecciava con la sua rampante e lucente Bugatti, con a fianco Jolanda, per le strade di Castello, lasciando una scia di polvere e invidia. Il sor Silvio era pazzo di Jolanda, la copriva di regali. Lei era felice e quasi fedele. Fu la Bugatti, invece, a tradire il sor Silvio quella notte buia e tempestosa quando, tornando dalla casetta di Jolanda al suo albergo in città, l’auto in curva si capovolse. Si incastrò tra quelle lamiere il sor Silvio. Tra la vita che non era più tale e la morte che lo rifiutava, perse l’uso delle gambe, in breve tempo anche la ricchezza, le amicizie e l’amore di Jolanda. Il sor Silvio terminò la sua esistenza trascinandosi con due bastoni che non erano neanche stampelle.Passarono gli anni che contagiarono Jolanda senza pietà.
La bellezza e il fascino ormai erano solo un ricordo, come le amicizie importanti. Quando, a tempo scaduto, la donna credette di aver trovato il principe azzurro in un tenentino che poteva essere suo figlio, venuto a Castello nei primissimi anni quaranta del secolo scorso con la scuola militare di artiglieria. Un tenentino dalla testa riccioluta e la voce armoniosa che a Jolanda risucchiò il cuore e il conto in banca. Era il mese di settembre del ’43 quando il tenentino se ne andò con la frantumazione dell’esercito italiano e Jolanda rimase sola. Era ormai una donna senza età con i capelli del color della cenere sparsi sulle spalle perennemente coperte da uno scialle azzurro di lana leggera, trapuntato da argentei lustrini, così come il vestito scuro dai mille bottoni, lungo fino a coprire le caviglie, patetica testimonianza di quando Berta filava…
Gli occhi appesantiti da un povero trucco che non riusciva a nascondere la ragnatela di profonde rughe che l’assediavano. Le labbra e le unghie di un rosso indecente, due grandi cerchi le pendevano dalle orecchie. Ormai sola Jolanda in quella casetta, in compagnia dei suoi ricordi e della povertà, alleviata dal concorso umano. Compreso quello delle dame di San Vincenzo, una pia istituzione dedita alla carità pelosa. Era una mattina di luglio quando trovarono Jolanda morta, l’aria profumata dalle ginestre in fiore bisbigliava nel prato della villa del barone, una folata di vento più forte delle altre portò quel profumo giù a quella casetta e accarezzò il volto di Jolanda, una carezza lieve e dolce.
di Dino Marinelli