Mercoledì, 04 Dicembre 2024

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Museo archeologico. Intervista al professor Ermanno Bianchi

Quei reperti ci appartengono

La notizia della prossima istituzione di un Museo Archeologico a Città di Castello, ha suscitato nel professore Ermanno Bianconi, geografo e storico locale, conosciuto per i suoi molteplici interessi culturali, una grande soddisfazione nel vedere finalmente l’Amministrazione Comunale dar vita a un progetto tante volte sollecitato anche da parte sua. Il professor Bianconi si augura possa, un giorno non lontano, oltre ai reperti della Collezione Civica, veder recuperati anche i preziosi resti archeologici ritrovati a Trestina e alle Fabbrecce (località del comune di Città di Castello) e che ora fanno parte rilevante e importante del Museo Archeologico di Cortona.

Come e quando sono stati ritrovati e quale è stato l’itinerario dei reperti archeologici provenienti dal nostro territorio?
Si tratta di oltre 100 resti archeologici che hanno un’età che va dall’inizio dell’VIII fino alla metà del VI sec. a.C. Furono ritrovati in due periodi differenti: alla fine dell‘800 a Trestina e ai primi del ‘900 in quel delle Fabbrecce. I primi ritrovamenti risalgono al 1878 appunto a Trestina, in località Tarragoni, e vennero alla luce durante dei lavori agricoli in dei terreni di proprietà di Angelo Nicasi che si accorse della dipersione di diversi di quei resti perché i contadini avevano già provveduto a venderne diversi. Il Nicasi si adoperò per recuperare i reperti rimasti sia quelli ritrovati presso le case dei contadini sia quelli già venduti al Museo di Perugia, mentre altri furono recuperati ad Arezzo; certamente altri resti, forse quelli in oro o in argento o pietre preziose avevano già preso altre strade. Al museo fiorentino furono venduti dallo stesso proprietario.
La seconda scoperta, ebbe luogo in località le Fabbrecce in terreni di proprietà di Belei Paolo. Sotto la direzione del dott. Milani, direttore del Museo archeologico di Firenze, negli anni 1901-2, ebbero luogo gli scavi di una tomba a fossa di tipo Piceno venuta alla luce a seguito di lavori di miglioria della linea ferrata della FAC (Ferrovia Appennino Centrale), in quel delle Fabbrecce.

Ma in un primo momento furono inviati a Firenze?
Sì perché furono acquistati dal Museo Archeologico di Firenze come era già avvenuto per quelli di Trestina. E poi [i reperti] vennero sapientemente restaurati come li vediamo ai nostri giorni. Dopo l’alluvione del 1966, questi reperti furono raccolti e depositati in un magazzino del Museo e non più esposti per i visitatori. Per evitare il loro definitivo confinamento in luoghi non fruibili dal pubblico e tenuto conto della sovrabbondanza di reperti etruschi esistenti nel Museo, la Soprintendenza dei Beni Archeologici fiorentina decise di restituirli ai territori di origine, «se i Comuni dispongono di ambienti idonei alla loro custodia e conservazione; a maggior ragione se hanno allestito un museo archeologico».

E perché allora i reperti ritrovati a Trestina e Fabbrecce non sono arrivati a Città di Castello?
Qui sta il punto. Nel 2004, anche per l’inerzia del Comune Città di Castello, tutto il materiale di pertinenza del nostro territorio viene trasferito nella sede del Museo di Cortona, quindi in un comune lontano da Città di Castello, senza collegamenti col territorio di ritrovamento e non in linea con le scelte programmatiche della Soprintendenza fiorentina. Inoltre, visitando le sale del museo riservate ai reperti altotiberini, si scopre che questi vengono classificati come reperti etruschi, cosa che, a mio parere, non corrisponde alla realtà storica.

Perché nutre la preoccupazione che questi reperti non possano tornare a Città di Castello?
Di fatto quei reperti vengono considerati di pertinenza di Cortona e non di Città di Castello. Ciò è rappresentato anche in una carta geografica che giganteggia nel museo cortonese, in cui si vede il confine di Cortona, quindi della antica Etruria, portato scorrettamente fino alla sponda destra del fiume Tevere per così includere nella regione Etruria anche Trestina e le Fabbrecce. E ciò a me pare un escamotage per far sì che quei reperti rimangano dove sono.

La sua è una contestazione, ma su quali basi scientifiche si fonda?
25 1In primo luogo da Massimo Pallottino, il padre della Etruscologia, il quale, insieme ad altri studiosi, indica in una cartina della sua più importante opera che il confine etrusco tra l’Alta Valle del Tevere e la Val di Chiana (questa sì etrusca) correva lungo il crinale della dorsale appenninica occidentale (si veda anche la gigantografia esposta al museo etrusco di Villa Giulia a Roma, del medesimo tenore).
Quindi il reale confine seguiva una via naturale, di crinale, che a nord dal lago Trasimeno fino all’Alpe di Poti escludeva tutta l’Alta valle del Tevere dalle competenze etrusche; confine che poi rimarrà anche tra il municipium di Arretium e di Tifernum Tiberinum e successivamente tra la Diocesi toscana e quella tifernate. Quest’ultima nel 1325 verrà decurtata di due pievi nell’alto corso del torrente Niccone per favorire la nascita della Diocesi di Cortona; ma questa è un’altra storia, però solo in quella data Cortona entrerà in territorio altotiberino e solo per le aree proprie delle due pievi. Il confine tra le due comunità è rimasto poi immutato fino ai nostri giorni.

E poi?
Nel VII e VI secolo a.C. (periodo a cui risalgono la quasi totalità dei reperti), Cortona etrusca non esisteva, perché come struttura urbana, venne realizzato tra la fine del V e inizio del IV secolo (v.Torelli), molto probabilmente per l’arroccamento della gens etrusca della piana della Chiana preoccupata dall’ arrivo dal nord dei Galli-Celti che nel 390 a.C. conquistarono addirittura Roma. Non è neppure casuale che gli Etruschi non riuscissero mai a prendere possesso dell’Alta Valle del Tevere, facilmente raggiungibile dalla Val di Chiana; ciò secondo il mio punto di vista significa che in essa vi era insediato un altro popolo disposto a difendere la propria libertà, anche con le armi: questo popolo era quello dei Piceni!

Che cosa si deduce da questa ricostruzione?
Che quei reperti, indicati come etruschi, in realtà non lo sono nella loro totalità, ma appartengono anche ad altri territori italici (medioadriatico o Umbro-piceno) o addirittura all’area orientale dell’Europa e del Medio Oriente, collegata con l’Adriatico.

La sua tesi è suggestiva, ma come si può dimostrare?
Prendiamo in esame tre reperti tra i più importanti oggi a Cortona: Il tripode indicato come etrusco, riprodotto a Trestina e collocato innaturalmente in26 1 una rotonda stradale è frutto anche di una arbitraria indicazione culturalmente fuorviante perché appunto è indicato come etrusco. Eppure gli stessi studiosi che hanno redatto le schede tecniche dei reperti originali (Catalogo Maec di Cortona), le protomi (gli elementi decorativi in bronzo fuso esposte) vengono indicate come proprie del tripode ma di provenienza della cultura Urartea sviluppatasi nella zona del Luristan (regione compresa tra Iran Armenia e Iraq), così come le altre protomi vengono sempre indicate con origine mediorientale-greca arrivate nei porti costieri piceni-adriatici. Così l’elmo piceno del tipo Fabriano è simile ad altri reperti presenti nei musei archeologici Oliveriano di Pesaro (per i materiali di Novilara) e di Sanseverino Marche.
Infine l’anfora e gli altri reperti in cotto sono caratteristici della ceramica picena sia nelle raffigurazioni zoomorfe sia nella tecnica di incisione a excisione o escissione (tecnica decorativa della ceramica ottenuta incidendo l’argilla prima di cuocerla e riempiendo le cavità ottenute con paste colorate diverse). Voler definire tutto ciò di derivazione etrusca, ripeto, con corrisponde alla realtà storica e risulta fuorviante per gli studiosi.

E quali conseguenze può avere tutto ciò sul piano pratico e ai fini del costituendo museo archeologico di Città di Castello?
Che può rivelarsi difficile poter rientrare in possesso di tali reperti una volta indicati come etruschi o appartenenti a territori all’epoca considerati etruschi.

Non c’è il rischio di aprire una querelle campanilistica?
Il professor Pallottino, giunto al termine dei suoi studi, disse: «Noi abbiamo un grande fantasma che ci perseguita da molti decenni: sull’Adriatico, nel centro dell’area, e questo fantasma sono i Piceni». La presenza Picena, come dimostrano i reperti ritrovati a Trestina e Fabbrecce, così pure lo stesso etimo parzialmente piceno di Arretium (a dirla con il Devoto) hanno interessato in modo significativo l’Alta Valle del Tevere. Ma bisogna estendere e approfondire gli studi non solo alla parte sud ma a tutta l’area geografica altotiberina, anche quella a nord. Lo stesso E. Mannucci nella sua Guida storico artistica su Città di Castello del 1878 (la prima guida laica!) dichiara che: «… nulla si è mai rinvenuto nel nostro territorio che riveli nel medesimo il passaggio degli Etruschi».

Cosa devono o possono fare le istituzioni pubbliche?
Devono adoperarsi perché i reperti esposti a Cortona, assieme ai tanti reperti altotiberini che dormono disseminati in vari musei italiani ed esteri, tornino a casa e trovino il loro definitivo approdo e valorizzazione nel territorio d’origine Essi costituiscono una sorgente fondamentale per lo studio della presenza picena in questa area, la possibilità di conoscere meglio la nostra storia e la nostra cultura; una occasione di stimolo per l’insegnamento nelle scuole ed una fonte importante per un turismo qualificato. Si può anche pensare che accordandosi con Cortona si possa rendere possibile che a Città di Castello convergano i reperti di tipo non etrusco e di questi ultimi delle copie vengano realizzate per Cortona.

Le immagini sono state ricavate da un servizio televisivo realizzato nel museo di Cortona da Tommaso Bigi.


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