A una giovane amica che mi chiede: “Qual è la mostra che non mi sarei dovuta per-dere quest’anno?” rispondo: “Quella parigina al Museod’Orsay: Il modello nero da Géricault a Matisse”. La ragione è che per la prima volta un’importante istituzione francese affronta il tema della rappresentazione dei “neri” nell’arte. L’idea non è originale ma viene da oltre Atlantico, dai cosiddetti “Black Studies” che hanno affrontato la questione incrociando storia, politica, giurisdizione, letteratura e arti plastiche. Punto di partenza è stata l’esposizione alla Wallace Art Gallery di New York in cui la studiosa americana Denise Murrell s’interrogava sull’identità e il significato della cameriera nera nel celebre dipinto Olympia di Manet. Il quadro fece scandalo al Salon del 1865. Metteva in scena con crudo realismo una prostituta bianca nuda che fissa altezzosa lo spettatore come fosse un cliente. Al suo fianco una serva nera pudicamente vestita, docile e sorridente, le offre un mazzo di fiori. I tratti scuri del suo volto, a fatica decifrabili, e il gatto nero ai piedi del letto mettono in risalto il candore della pelle della donna. Sul taccuino di lavoro Manet registra: Laure, très belle négresse e l’indirizzo, 11 rue Ventimille 3°. Da questo appunto è partita la ricerca della Murrell che l’ha portata ai quadri di Bazille, alle foto di Nadar, alla maîtresse creola di Baudelaire, Jeanne Duval, la “Venere nera” per 20 anni musa e amante - c’è in mostra il dipinto che le ha fatto Manet fino a Elvire Van Hyfte, ritratta da Matisse. Molti i modelli neri che anonimi han- no abitato le tele dei pittori francesi. Davano un tocco di esotismo. O di sfacciato voyeurisme nelle scene “orientaliste” degli harem e del mercato degli schiavi. La mostra è il tentativo di dare ad alcuni di loro un nome e un’origine. Già nel Salon del 1800 era esposto Le Portrait d’une négresse della pittrice Marie-Guillemine Benoist, dove la modella era indicata col termine generico di “negra” in riferimento a una condizione servile. Solo adesso scopriamo che si chiamava Madeleine ed era originaria della Guadalupa. Lo stesso è successo con il nero che campeggia nel manifesto dell’esposizione e nel celebre quadro “La zattera della Medusa” di Géricault. Si chiamava Joseph, veniva da Santo Domingo, era stato ingaggiato come acrobata nella troupe di Madame Saqui prima di diventare il “modello prediletto” di Géricault, di Chassériau e per 2 anni degli allievi dell’Accademia delle Arti di Parigi
LA STORIA DELLA SCHIAVITÙ
La mostra abbraccia due secoli: dall’abolizione della schiavitù in Francia nel 1848, sotto la Seconda Repubblica, celebrata con enfasi nel famoso dipinto di Biard e arriva al periodo tra le 2 guerre mondiali. È proprio con la Prima Guerra che in Europa sbarcano migliaia di “tiratori” senegalesi, i soldati antillesi e i G.I. neri americani mentre le avanguardie artistiche con Picasso, Apollinaire, i Dada e i surrealisti trovano nella scultura africana e nel jazz nuove fonti d’ispirazione. Nei folli anni ’20 i Neri diventano icone della vita parigina. Una consolidata tradizione circense lancia artisti di colore come Miss Lala che Degas affascinato immortala mentre volteggia in aria; o l’esotico domatore Delmonico e il clown Chocolat. In teatro s’afferma Ira Aldrige, primo attore nero nel ruolo di Otello e la cantante lirica cubana Maria Martinez, detta la “Malibran nera”. Nei locali impazzano balli burleschi e sensuali come il Cake-Walk, nato in Virginia e trapiantato con successo in Europa da neri fuggiti da un’America segregazioni- sta. Nel musical, La Revue Nègre Joséphine Baker assurge a star adorata a dispetto dello stereotipo razzista. In mostra c’è un delizioso filmato muto dove, vestita di 4 piume, si diverte a fare la scimmietta, gli occhi strabici e i movimenti disarticolati di Totò. Eppure ancora nel 1931 l’affiche dell’Esposizione Coloniale Internazionale mostra un negro seminudo con la lancia tra capanne di fango e l’espressione ebete da primate. I surrealisti con il Partito Comunista propongono indignati una controesposizione. Dalla penna di poeti come Aimé Césaire e Sédar Senghor nasce un nuovo concetto di “negritudine” come affermazione d’una identità e d’una cultura nera in sintonia con il “Rinascimento di Harlem” degli afroamericana di New York. È proprio lì che sbarca nella primavera del 1930, dopo una sosta a Tahiti, Henri Matisse. Subito folgorato dallo skyline dei grattacieli, dalle insegne luminose, dal jazz e dal musical. Lo guida per Harlem un amico di Gertrude Stein, il fotografo Van Vechten, che gli fa incontrare scrittori come Du Bois e Alain Locke, e musicisti come Louis Amstrong e Billie Holiday. Da giovane Matisse era rimasto affascinato dalla luce del Mediterraneo e dall’arte islamica. Nei frequenti viaggi in Algeria e in Marocco aveva colto e riportato sulle sue tele i colori caldi e violenti del Sud. Emblematico allora diventa il confronto con Picasso mai uscito dall’Europa. A Harlem Matisse scopre un approccio con la “modernità nera” che scardina ogni stereotipo. Il nero non è più lo schiavo delle piantagioni del Sud, ma vive in un contesto urbano moderno che ha le caratteristiche del “ghetto” e della segregazione razziale. I ritratti di Elvire Van Hifte, una modella belga-congolese, e di Katherine Dunham, che ha fondato i balletti caraibici, e quello di Joséphine Baker, sono una nuova rappresentazione della donna nera. Svincolata da ogni esotismo e dalla fantasmatica alterità che dovrebbe rappresentare. Con la tecnica del collage e delle gouaches découpées Matisse riduce i corpi alla loro essenza geometrica e i colori hanno il ritmo d’una danza sfrenata.
ITALIANI A PARIGI
Il mio sbarco a Parigi ha coinciso con un evento drammatico. Con l’amico Carlo Jansiti siamo in piazza della Bastiglia e da lì scorgiamo un insolito rosseggiare del cielo che a me sembra un effetto del tramonto. Carlo invece insiste che è un incendio e un signore che passa ce lo conferma: è andato a fuoco il tetto (e la Flèche) di Notre-Dame. Sono le 18.40 del 15 apri- le. Parigi e il mondo sono sotto choc. La tv e i media trasmettono in diretta il crepitio e il fumo nero dell’immenso rogo. Migliaia di cittadini si sono radunati sui ponti che fronteggiano la Cattedrale e in ginocchio, tra candele e lumini accesi e i flash dei cellulari, pregano per scongiurare la catastrofe. 400 eroici pompieri rischiano la vita tra le fiamme, mentre, oltre Atlantico, un idiota eletto Presidente twitta consigliando l’uso dei Canadair. La bomba d’acqua farebbe collassare l’intero edificio. L’incendio in qualche modo viene domato e l’indomani Liberation esce con un titolo impeccabile: Notre-Drame.
Sulle edicole parigine campeggia una pubblicità col faccione sorridente di Oscar Farinetti e la didascalia: “Gli italiani che fanno la Francia”. È stata appena inaugurata la sede di “Eataly” nel Marais. Mi incontro con Lorenzo Alunni alla “Caféothèque” che è un locale dove si degustano vari tipi di caffè. È la settimana di quello guatemalteco. Lorenzo è a Parigi perché ha vinto una borsa di studio di 2 anni della Fondazione Marie Curie. La sua ricerca è incentrata sulla “medicina di frontiera”, cioè sull’accoglienza e la cura dei profughi. È già stato a Calais, a Bordighera e a Lampedusa. Mi complimento con lui per il lavoro sui migranti che è lo “scoglio”(anche metaforico) di quest’epoca. Poi mi dice che a Parigi c’è anche l’amico Achille Sberna. Colgo l’occasione per invitarli entrambi alla “cena italiana” già promessa a Claude Arnaud e a Geneviève. Sarà un piacere farli in- contrare.
Con la lista della spesa ci fiondiamo a Eataly che occupa lo storico complesso architettonico del Gruppo Galeries Lafayette in rue Sainte-Croix de la Bretonnerie. Sono 4000 mq arredati dall’artista neo-minimalista Martin Boyce che però esagera con ingombranti festoni di ceste di vimi- ni. C’è il meglio della gastronomia italiana e le eccellenze di 500 piccoli produttori. Ma i prezzi non sono da mercato comunale.
Quando gli amici arrivano per la cena una coppa di champagne scio- glie l’impaccio delle presentazioni. Sul nome Achille (che in francese si pronuncia Ascìl) mi diverto a raccontare una probabile etimologia. Dal greco: “senza labbra” perché non aveva mai succhiato il latte della madre Teti. Claude e Geneviève chiedono curiosi ai “ragazzi” cosa li ha portati a Parigi, consapevoli di quanto sia dura e selettiva. Progetti e ambizioni si intrecciano amabilmente ai bocconcini di mortadella fresca e profumata, fette di caciocavallo e di salame strolghino, e a una sapida insalata di finocchi e arance. Si scopre che tutti stanno lavorando a un libro: Lorenzo a un romanzo per Il Saggiatore; Claude su un fatto efferato successo quando viveva in Corsica; Carlo alla biografia di Jacques Guérin e io alle prese coi ricordi d’infanzia. In sottofondo, complice il cibo, una passione sviscerata per l’Italia. Geneviève evoca emozionata il profumo dei limoni nel recente soggiorno a Ravello e in Costa Amalfi- tana e l’emozione delle processioni a Caltagirone e ad Agrigento. Ha negli occhi la stessa luce estatica che ave- va la giovane Bergman in Viaggio in Italia di Rossellini. Io continuo a fare la spola in cucina per controllare in forno la cottura d’uno dei miei “pasticci” preferiti. Claude ci racconta che la sera prima erano a cena da Benedetta Craveri, alla quale è legato da profonda stima e amicizia. La nipote di Croce è più celebre in Francia che da noi per i suoi studi sulla conversa- zione e il ruolo esercitato dalle donne nel XVII e XVIII sec. Spiritosissimo descrive i tic del marito ex-ambasciatore e i commensali italiani, più divertenti e meno accademici degli storici francesi. Fumante arriva in tavola il pasticcio di tagliatelle e spinaci fre- schi, insaporito da rigatino e fontina valdostana, noce moscata, buccia di limone e parmigiano. Délicieux! fa Geneviève e vuole la ricetta. La teglia è svuotata in un istante. A chiudere la cena il dolce Plaisir del mitico Lenôtre e una bottiglia di champagne perché (ce l’avevano tenuto nascosto) è il compleanno di Claude. E allora,in alto i calici: auguri, amico!