Lunedì, 11 Novembre 2024

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Il vocabolario del dialetto castellano

l Vocabolario del dialetto castellano di Francesco Grilli (16° volume della “Opera del vocabolario dialettale umbro” fondata da Francesco A. Ugolini e diretta da Enzo Mattesini), frutto del lavoro di decenni, ha una duplice introduzione: quella del professor Mattesini e quella dello stesso Grilli (articolata in due parti: A la gènte de Castélo e Avvertenze dell’autore). Se nella introduzione di Mattesini apprezziamo la profonda conoscenza che egli dimostra nel campo della dialettologia umbra, e nelle Avvertenze troviamo preziose indicazioni per meglio comprendere il lavoro svolto e i criteri che lo hanno guidato, nella parte in cui Francesco Grilli si rivolge A la gènte de Castélo possiamo godere la profondità dei sentimenti e dei ricordi dello scrittore. Nel dialetto castellano infatti egli ricerca e valorizza il lessico familiare della sua casa e del suo quartiere, ricordando i suoi genitori, e il loro modo di esprimersi così vivace proprio grazie al dialetto, del quale solo i “nativi” possono apprezzare tutte le sfumature.

27Nella mia casa, dice l’autore, mi trovavo daragazzo come in un nido caldo e tranquillo,nel quale le voci dei miei genitori risuonavanousando due diversi “registri” del dialetto castellano: quello tipico della Mattonata (il babbo, fabbro con l’officina a Piazza delle Oche) e quello tinto di sfumature rurali (la mamma, che lavorava alla Fattoria Tabacchi come cernitrice).

La prima sezione che troviamo nella raccolta di voci dialettali riguarda la coniugazione di tempi e modi dei verbi. Mi sembra particolarmente attraente la “collezione”, molto ricca e accurata, dei futuri e dei condizionali. Segue la ricca raccolta dei termini (che complessivamente supera le centomila parole). Per dare un’idea di come siano approfonditi i lemmi del vocabolario di Grilli, ne prenderemo uno tratto dal campo semantico del babbo e uno dal campo semantico della mamma.

Per il campo semantico del padre scegliamo naturalmente il lemma fabro (fabbro). Come tutti i lemmi di quest’opera, il lemma fabro è commentato in modo molto articolato, con citazioni di gustose frasi proverbiali: «Dal fabro ’n se tócca, dal farmacista ’n s’asagia, Si vu’ vedé l’infèrno, fabro d’istète e muratór d’invèrno! ’l fabro cj ha le mèni nére e porta a chèsa ’l pèm bianco!». Quest’ultimo detto raccolto dalla bocca del popolo è dedicato naturalmente al babbo Oreste.

Per il campo semantico della mamma scegliamo ovviamente il termine tabachina, “gloriosa lavoratrice del tabacco”, secondo la definizione dell’autore. Il plurale, tabachine, evoca a Grilli la bella citazione: «il romantico fiume di grembiuli marroni …». Ma il termine è inserito anche al maschile, tabachino, tabaccaio. Comunque questo termine era anche il soprannome di mons. Giuseppe Pierangeli, e Grilli non si lascia sfuggire questo aggancio storico, tra i molti che ricorrono nel vocabolario, sia quando vengono citati i protagonisti della storia castellana che quando vengono citati i luoghi del nostro territorio. Interessante e simpatico è il lemma “Faéti”, che ricorda prima di tutto il canonico Giacinto Faeti, celebre

per avere fondato opere di carità e anche per la sua lunga chioma che non tagliava mai, perché non poteva compensare il barbiere: i suoi soldi erano destinati tutti alla beneficenza. Ma poi nel linguaggio popolare questo cognome si era esteso, per antonomasia, a indicare il “maschio con lunga capigliatura nei tempi in cui usavano i capelli a spazzola”.

Tra i toponimi segnaliamo naturalmente lairrinunciabile “Matonèta” e la “Scatòrbia”, con la indimenticabile “Fònte de ’l Còpo”. Ricordiamo le “Cèrche”, dette anche “Bucace”, “siti castellani proverbiali, adiacenti alle mura urbiche… che prendono il nome dagli archetti interni alle mura stesse”. Grilli ricorda che molte persone, non avendo altro alloggio, si erano rifugiate dopo la seconda guerra mondiale sotto le “Cèrche” di porta San Giacomo. Altra parola non priva di consonanze anche piacevoli per i tifernati è “patòllo”, e soprattutto il “patòllo de ’l Tévere”.

Nel campo gastronomico ricordiamo il “panèro” destinato a cuocere l’immancabile “ciacia”, il tradizionale “crostèlo”, “i cìccioli”, “i ravigióli”, “le merangole”, e l’immancabile “porchètta”. È bello dunque percorrere questo vocabolario, nel quale le parole evocano non solo un ambiente, ma tutta la tradizione storica e sentimentale della nostra città: e dalla linguistica passiamo agevolmente e con tanta curiosità alla storia. A questo proposito conviene citare l’arcaico termine “mèrre”, una parola di origine francese, “maire”, il “sindaco” del periodo della dominazione napoleonica (1809 - 1814), spiega il lessico. Il che ci riporta a un personaggio di una certa levatura della nostra storia locale, Giuseppe Raffaello Machi, che fu appunto sotto i diversi regimi maire e gonfaloniere della città. E, tornando al popolo, Grilli riporta la frase idiomatica: «e chi sé, ’l mèrre?», come a dire «chi ti credi di essere?» dove l’uso del pomposo ed esotico termine francese, che doveva risuonare spesso in quel periodo all’interno delle nostre mura, sottolinea l’ironia della frase.

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