La caduta del muro di Berlino: lezione incompresa
l muro più famoso al mondo – a parte quello dei Pink Floyd – non si vede. E non si vede non per una qualche diavoleria ipertecnologica ma perché non c’è più, e da mo’. Però, ne è rimasta l’evocazione, anche se sovrappen- siero. Stiamo parlando di Wall Street, la strada del muro – centro della finanza mondiale, dove si giocano spesso i destini del mondo. Che si chiama così, perché un tempo c’era un muro, appunto. In realtà, era poco più che una palizzata, fatta erigere e poi rinforzare nel 1640 da Peter Stuyvesant, governatore dei Nuovi Paesi Bassi il cui gioiello era New Amsterdam, per tenere lontani i pellerossa – gli altri, i diversi, i nemici. Quando scoppiò la guerra fra inglesi e olandesi la palizzata divenne un vero e proprio muro di terra e legname alto 3,5 metri e fortificato.
Ma non resse alla storia. E quando gli inglesi nel 1664 rinominarono la città in New York il muro scomparve. Ma non la strada – dove fino al secolo successivo commercianti e broker avevano l’abitudine di stipulare i loro patti di transazione. Così, un giorno del 1792 decisero di stilare un accordo e lo chiamarono Buttonwood Agreement, perché But- tonwood è il nome in inglese del platano sotto cui erano soliti fare i loro scambi. E questo è l’inizio del New York Stock Exchange.
Forse è vero che gli uomini hanno da sempre costruito muri mentre edificavano ponti o luoghi di culto, acquedotti e arene, piazze di mercato e accampamenti. Il Vallo di Adria- no, limen dell’impero romano – che divideva la Britannia, provincia conquistata dai barbari che abitavano oltre, è del II secolo dopo Cristo – è ancora in piedi. E la Grande Muraglia Cinese (una serie di muri, in realtà, e di difese naturali, costruiti in epoche e dinastie successive), lunga 8.852 chilometri, iniziò nel 215 avanti Cristo. E sta ancora in piedi. Mentre le mura di Gerico non ressero alle trombe dei sacerdoti guidati da Giosuè, milleduecento anni prima di Cristo. Senza bisogno di ricorrere all’aiuto divino, Janet Napolitano, che è stata Segretario alla Sicurezza interna dal 2009 al 2013, presidente Obama, disse una volta: «You show me a 50-foot wall, and I’ll show you a 51-foot ladder / tu mostrami un muro alto 50 piedi e io ti farò vedere una scala alta 51». Non credeva, Janet Napolitano, che pure si era battuta già da governa- trice dell’Arizona contro il traffico dell’immigrazione clandestina, che i muri fossero “la risposta” – un muro si può sempre scavalcare, per quan- to alto tu possa farlo.
Eppure, non solo al confine tra gli Stati Uniti e il Messico il muro sembra essere “la risposta” dell’amministrazione Trump di fronte a un esodo di massa, dal Guatemala, dall’Honduras, dal San Salvador, che ha aspetti e proporzioni bibliche. Trump ha deciso di fare fuoco e fiamme per “onorare” la proposta di campagna elettorale di allungare e rafforzare un muro che già il presidente Clinton, e dopo di lui sia Bush che Obama, hanno esteso. Solo negli ultimi dieci anni sono diecimila i chilometri di muro costruiti nel mondo. E perciò, non stiamo parlando di muri “storici” – come quelli di Belfast, iniziati nel 1969 dopo i Troubles, che sono 99 come i nomi di Allah, e dividono protestanti e cattolici, passando per vie e vicoli e dividendo caseggiato da caseggiato, quartiere da quartiere e che, per cinismo della storia, si chiamano Peace-walls, e oggi, colorati di murales che celebrano un qualche caduto dell’Ira o delle milizie orange a seconda di dove li si guardi, sono diventati meta turistica, e speriamo che tali restino. O quello che spacca Cipro, lungo 184 chilometri, separando turco-ciprioti e greco-ciprioti, che si chiama linea verde perché Peter Young, il generale inglese che nel 1963 provò a mettere un freno al massacro fra etnie, aveva sottomano solo una matita verde per tracciare la divisione dell’isola in due metà. O quello che divide le due Coree.
Ci sono i 1.800 chilometri di muroche dividono l’Arabia Saudita dallo Yemen; i 700 chilometri che separano l’Iran dal Pakistan; i 230 chilometri tra Israele e Egitto (oltre quelli in Cisgiordania); i 482 chilometri tra lo Zimbabwe e il Botswana; i 2.720 chilometri (il record!) tra il Marocco e il Sahara occidentale. La Grande Muraglia cinese L’Europa d’altronde non fa che co- struire muri: c’è il muro che ci divi- de dall’Africa e che sta nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla e fanno da confine con il Marocco, una barriera lunga venti chilometri, alta sei metri, che è costata decine di milioni dell’Unione europea, nell’ambito del programma Frontex. C’è il muro che ci divide dall’Asia, dalla Turchia, e che in realtà è un fiume, quindi è una barriera naturale, il fiume Evros, e avrebbe dovuto comprendere an- che un fossato, ma a causa dei costi molto elevati la Grecia ha deciso di mantenere soltanto una doppia barriera di reticolato e filo spinato alta quattro metri. Da qui arrivano immi- grati da Afghanistan, Pakistan, Armenia, Kurdistan, Iraq, Siria. E poi ci sono i muri – anche qui barriere di reticolati, spesso elettrificati – che dividono l’Ungheria dalla Serbia ma Orbàn vuole costruirne un altro per separarsi dalla Croazia. E quello che divide la Bulgaria dalla Turchia, un vero e proprio muro lungo i trenta chilometri di frontiera.
Insomma, caduta the iron curtain, la cortina materiale e ideologica che spaccava l’Europa a metà, dal mar Baltico al mar Nero e che teneva lontano i temibili cosacchi dalle fontane di San Pietro e il corrotto capitalismo dalla pura anima slava, l’Europa continua a frammentarsi e a rinchiudersi. Come a Alphaville, la gate community di San Paolo, Brasile, dove i ricchi hanno deciso di rinchiudersi – e fare le proprie scuole, le proprie palestre, i propri centri commerciali – per stare lontani dal mondo sporco e cattivo delle favelas e mettere più di mille guardie a vigilanza e protezione: come dice un giardiniere che ci va tutte le mattine a pulire le aiuo- le e poi la sera torna a casa, di qua Alphaville di là Alfavela. In Brasile, Alphaville – nata proprio seguendo le indicazioni architettoniche per la città ideale di Le Corbusier - si va riproducendo e in America le gate community sono ormai realtà stabili. E sembra l’incubo rovesciato di 1997: Fuga da New York, il film dove nell’isola di Manhattan chiusa da alti muri impossibili a valicare sono stati rinchiusi i reietti. Che stiano lì nel ghetto, e non ci conta- minino. Un’utopia che si trasforma in distopia.
I muri sono il paradosso dei nostri tempi: tempi che si presupponevano fatti di scambi e movimenti liberi di uomini, capitali e merci e che invece si vanno distorcendo in una frammentazione sempre più ristretta di comunità.
Forse un giorno i muri diventeranno il contrario – punti di sutura tra popoli e terre. E forse faremo pellegrinaggi per ricordare quanti provarono a scavalcarli, e vi lasciarono la vita. Un po’ come accadde per tutto il Novecento con il “muro dei federati” di Parigi, al cimitero del Père Lachaise, contro il quale il 28 maggio del 1871 vennero fucilati 147 Comunardi i cui corpi furono gettati nelle fosse comuni con altre migliaia di insorti e che divenne meta di cortei pavesati di bandiere rosse, “il nostro lutto e il nostro orgoglio”.
Siciliano, meridionalista, scrive articoli, storie e saggi. È stato tra i fondatori della casa editrice DeriveApprodi. È stato diretto- re della rivista mensile «accattone – cronache romane» e de «il maleppeggio – storie di lavori». Il suo blog è lanfrancocaminiti. com. Ai tempi di Genova 2001, era tra i responsabili del sito del settimanale Carta, www.carta.org, insieme ad alcune persone che oggi “cucinano” ogni giorno Comune. |