La storia di Gino Sparagnini di Alvaro Tacchini
ll 17 gennaio di quest’anno è deceduto nella frazione tifernate di Passerina Gino Sparagnini, l’ultimo reduce della zona tra Città di Castello e San Giustino della deportazione di civili attuata dai tedeschi dal maggio al giugno 1944. All’epoca Sparagnini aveva 18 anni e viveva a Cerbara. La mattina dell’8 maggio 1944 si recò in città per ritirare negli uffici comunali la tessera annonaria del babbo, invalido di guerra.
Non sapeva che i tedeschi – con la complicità di fascisti locali – stavano rastrellando il centro urbano per “razziare” giovani da deportare in Germania. Avevano un impellente bisogno di manodopera per le loro industrie militari, perché nel Reich quasi tutti gli uomini arruolabili erano in guerra. Si trattava di un fenomeno imponente: ai tedeschi non bastavano più gli oltre 7 milioni di prigionieri di guerra che stavano costringendo al lavoro nel loro territorio. Così, a 18 anni, Sparagnini fu strappato alla sua terra, alla sua famiglia, con quella violenza cieca e brutale che si manifesta nel modo peggiore in epoca bellica. Divenne uno “schiavo di Hitler”, come 22 altri giovani tifernati, 27 umbertidesi e montonesi e alcuni pietralunghesi.
Ma ce ne furono certamente di più. Il mese dopo il rastrellamento investì San Giustino, dove i giovani rastrellati furono 26, e Sansepolcro. Raccolsi la testimonianza di Sparagnini alla fine del 2004. Conservava ricordi vividi della terribile esperienza della deportazione. Raccontò il viaggio verso la Germania su vagoni bestiame (“ci ham mèsso tu i vagoni del treno, come le bèstie”), il trattamento “igienico” appena arrivati (“ci han fàto fè l bagno ntul fiume; c’era la brina; n gélo, Dio bóno!”) e l’ammassamento nel primo lager, insieme a un “mischiaticcio de stranieri”.
Sparagnini e gli altri deportati tifernati e umbertidesi si ritrovarono nella regione tedesca della Turingia, in un territorio di grande importanza strategica per la produzione di armi, tra cui il caccia a reazione Messerschmitt Me 262, una degli aerei grazie ai quali Hitler sperava di capovolgere le avverse sorti del conflitto. “Sò stèto a lavorè sule gallerie, sempre col piccone e col motopicco” – mi disse Gino –, rammentando anche le violenze quotidiane subite: “Si nn lavorèi, le bastonète...! Dio bóno… Coi chèni lupo ci svejjèono la matìna, porca madosca! Gridèono ‘Aes!, aes!’, e gió bastonète ma quele brande...” La giornata lavorativa poteva giungere fino a 12 ore, con lunghi trasferimenti a piedi tra lager e cantiere. Come tutti gli internati, i giovani “schiavi di Hitler” soffrirono di freddo (“era sempre nùvvolo e frèddo, nn ho mèi visto el sereno; per difèndeme, aéo aquistèto nnu stracciàcio”) e, soprattutto, di sottoalimentazione. Ogni sotterfugio era buono per trovare qualcosa da mangiare: “Se trovèa m po’ de roba sui campi… Ma ci perquisìono sempre, porca miseria! A me me ci avéon becchèto a piè de niscosto le patate sui campi. M’ham mandèto dale Esse-Esse, Dio bóno, dale Esse-Esse coi chèni lupi. Per fortuna che c’avéo le sigarètte; l’ho dète mal chèpo dele Esse-Esse e quèllo m’ha dèto n calci sul sedére e m’ha armandèto m baracca; perché gni ho dèto le sigarètte”.
Infatti, per quanto schiavizzati a lavorare, inizialmente questi de-portati venivano in qualche modo “compensati”: “Lé per lé qualcosa ci dèono, le sigarètte, e ci paghèono; pu dòppo sempre pègio”. Ma quei quattro soldi servivano a poco: “N se podéa comprè gnente. Era tutto teserèto, da magnè n c’era; c’era l pène sule vetrine, ma n c’il dèono, ci voléa la tèsera, e noialtri la tèsera n ci s’avéa”. Qualche tedesco si impietosì nel vedere questi internati così mal ridotti e cercò di aiutarne qualcuno con generi alimentari, magari in cambio di qualche lavoretto nei momenti di libera uscita dal lager.
Raccontava Sparagnini: “Anche loro aéon paura dela polizia. Me sò trovèto na famijja che c’era na ragàza e du vèchi, me cocéon du patate… Tocchéa stè aténti che i tedèschi n vedéono. Gni dicéono che se gìa a aiutàlli a seghè la lègna”. Fu duro sopravvivere: “Perché ero gióvine, si no chi resistéa...”. Alla fine della guerra, i deportati erano ridotti in condizioni miserevoli. Molti ricordavano il loro peso corporeo appena dopo la liberazione: tra 39 e 35 chilogrammi. Qualcuno aveva ormai la salute irrimediabilmente com-promessa. Dodici deportati alto-tiberini non ce la fecero a resistere e morirono ben prima della fine del conflitto. Intanto, a casa, nessuno sapeva che fine avessero fatto. Come gli altri, Sparagnini non fu mai autorizzato a scrivere a casa, né mai ricevette l’assistenza della Croce Rossa. Nel 2001, Gino chiese un risarcimento per le violenze subite alla Fondazione tedesca istituita a tale scopo. Non ci fu niente da fare. Gli risposero che “le condizioni di vita estremamente dure provocate dalla guerra, come ad esempio penuria alimentare, sistemazioni misere e sovraffollate, condizioni di lavoro estreme e mal retribuite non sono di per sé sufficienti per l’indennizzo per lavoro forzato”. Lo avrebbero risarcito solo se fosse stato internato per “motivi razziali o politici”, come gli ebrei, i rom o gli oppositori del nazi-fascismo. Ma ben pochi di loro – lo sappiamo –uscirono vivi dai lager.