Ritornare ai fondamentali

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Dibattito - Dopo le elezioni. Alla ricerca di nuove idee per la sinistra che verrà
Di Roberto Segatori - sociologo, docente universitario

ritornare ai fondamentali1Per trovare risposte alla crisi della sini­stra è opportuno affrontare un percorso in tre tappe: 1) focalizzare la questione attuale, 2) abbozzare una diagnosi, 3) soffermarsi sulle terapie, sia su quelle superate sia su quelle ancora possibili.

LA QUESTIONE ATTUALE
Il nodo in cui è incappata la sinistra è espri­mibile in due dati. Alle elezioni politiche del 1976 il Pci ottiene il 34,4% dei voti e i suoi iscritti sono per l’82% operai, mezzadri e loro famigliari, inclusi moltissimi giovani. Alle ele­zioni politiche del 2018 il Pd sfiora appena il 19%, però, come osserva il politologo Lorenzo De Sio del Cise (Luiss), “è l’unico partito per cui si registrano effetti significativi della clas­se sociale sul voto, ma nella direzione inattesa di un suo confinamento nelle classi sociali più alte e con un reddito più alto. In sostanza il PD del 2018 sembra essere diventato il partito delle élite”. Un banale riscontro ci dice che an­che nelle ultime elezioni regionali il Pd ottiene più voti nei quartieri bene delle città, mentre i suoi iscritti precipitano abbondantemente sot­to i quattrocentomila, dai numeri elevatissimi (tra l’uno e i due milioni) degli anni cinquanta-settanta del ‘900.

UNA DIAGNOSI
La sinistra, e in particolare il Partito Comuni­sta, nasce sulla classica frattura padroni/ope­rai, in rappresentanza del lato più debole del rapporto. Almeno fino agli anni settanta, la situazione presenta due aspetti di grande chia­rezza: a) la classe operaia è ancora la principa­le componente della popolazione attiva; b) la frattura tra capitale e lavoro è netta, ovvero, in termini ortopedici, composta. Tra gli anni no­vanta del ‘900 e i primi due decenni del 2000, il quadro muta radicalmente. All’originaria frattura tra “capitale e lavoro” – che permane aggravata nelle differenze di reddito, anche se molto ridimensionata nei numeri –, se ne ag­giungono altre tre: la frattura tra “lavoro e non lavoro”, quella tra “lavoro e lavoro” e quella tra “garantiti e non garantiti”. Nel primo caso, la frattura corrisponde al fronteggiarsi di una quota sempre più ridotta di lavoratori occupati nei settori tradizionali, solo in parte compensa­ta dalla crescita di occupati nei settori dell’in­novazione, e la grande massa di inoccupati, di­soccupati e sottoccupati. Il ritorno di politiche neoliberiste, l’elevato sviluppo della tecnologia, le ristrutturazioni organizzative nell’industria e nel commercio – in cui gli ipermercati e l’e-commerce fanno strage delle piccole botteghe al dettaglio – concorrono a spiegare l’ampiezza e la profondità di tale faglia. Nel secondo caso, la frattura si consuma tra gli stessi occupati, ed è una differenziazione tra “lavori e lavori”. Qui si hanno due trasfor­mazioni. La prima consiste nell’enorme cresci­ta del settore dei servizi a scapito del settore agricolo e di quello industriale. La seconda avviene all’interno del mondo dei servizi. Al ripiegamento degli addetti al commercio tra­dizionale e al pubblico impiego, fa da parzia­le contraltare la crescita duplice, ma di livello professionale decisamente eterogeneo, di altri lavoratori. Da un lato, abbiamo gli impiegati altamente scolarizzati nei servizi di tipo imma­teriale alle imprese(nella finanza, nelle assicu­razioni, nella R&S, nella comunicazione, nel marketing, ecc.); dall’altro, gli occupati spesso sottopagati dei servizi alla persona (cure domesti­che, pulizie, ristorazione, lavanderie, attività di estetiste, ecc.). Insomma, ac­canto agli sfridi sociali dei ceti declinanti e dei vecchi e nuovi poveri, c’è ormai un nuovo dualismo tra lavoratori benestanti e lavoratori dei servizi più umili. La terza frattura è figlia dell’indebolimento dello Stato sociale verificatosi con le crisi eco­nomiche degli ultimi cinquant’anni che si ri­percuotono sul sistema di protezione sociale (in primis, assistenza sociale, sostegni all’oc­cupazione, previdenza). Da qui la contrappo­sizione degli interessi dei “garantiti” (pubblici dipendenti con contratti a vita, lavoratori di imprese medio-grandi molto protetti sindacal­mente) con quelli dei “non garantiti” (disoccu­pati, piccoli lavoratori autonomi nel commer­cio e nell’artigianato, professionisti e lavoratori precari). Queste tre ulteriori divisioni sono al­trettante fratture nel corpo sociale, ma questa volta di tipo scomposto e quindi difficili da sal­dare.

LE TERAPIE
Nel corso del tempo, la sinistra elabora diver­se strategie per adeguarsi al cambiamento dei rapporti socio-economici. Nella stagione del vecchio Pci il problema non si pone. Lo sfrut­tamento capitalistico e l’assoggettamento ideo­logico legittimavano la mobilitazione del pro­letariato sostenuta da un’idea di credito della sinistra verso le forze egemoni dello Stato bor­ghese. Quando questo modello non basta più (e siamo già nel primo decennio del 2000), Veltro­ni lo sostituisce mettendo l’enfasi sul dualismo tra fasce deboli e potentati, nonché con l’intro­duzione di un “liberalismo buono”. Nonostante i discreti risultati elettorali, neppure questa se­conda terapia decolla. Per incisività, è Matteo Renzi a farsi promotore di un terzo modello, spostando l’attenzione in altre direzioni. Ri­chiamando il ruolo dell’Italia di settima/ottava potenza industriale, Renzi si lancia nella sfida dell’innovazione in campo industriale (modello Marchionne), in campo europeo (per un’Ue di­versa e più forte), in campo istituzionale (ten­tata riforma della Parte seconda della Costi­tuzione). Purtroppo per lui, dopo un brillante successo alle elezioni europee, la sua riforma costituzionale viene bocciata dalla maggioran­za degli italiani e, soprattutto, l’ispirazione del modello Marchionne lascia troppi lavoratori a piedi. Con un Pd sempre più latitante in tema di elaborazione teorica, l’ultima terapia di si­nistra è tentata dai movimenti populisti, che pure abbandonano l’opposizione destra/sini­stra per schierarsi sull’as­se sopra/sotto. In Italia il Movimento 5 Stelle lo fa con la proposta del reddito di cittadinanza e l’attenzione ai temi della giustizia. Ma anche qui il modello appare in decli­no vuoi perché perseguito con palese incompetenza, vuoi per l’ombra di giusti­zialismo che si porta die­tro. In Europa, peraltro, la sinistra populista sta sposando anche il sovra­nismo contro il tradizio­nale internazionalismo. La motivazione è che ormai la globalizzazio­ne sia egemonizzata dal neoliberismo, e che solo un ritorno nei confini nazionali possa consen­tire il raggiungimento di migliori condizioni per le classi più deboli.

ALLORA CHE FARE?
Vista la parzialità delle suddette terapie, oggi non resta che tornare ai fon­damentali della sinistra che riguardano il cosa e il come. Il cosa sta nella intramontabile lezione di Norberto Bobbio di carat­terizzarsi per l’impegno per l’uguaglianza. Non un’uguaglianza di arrivo, ma un’uguaglianza nelle condizioni di partenza. Il che significa puntare ad investimenti in istru­zione per recuperare i giovani, in protezione socio-sanitaria pubblica per tutti, ma anche sull’equità fiscale. Su questo tema resiste un pregiudizio verso le categorie in crescita degli autonomi (artigiani, liberi professionisti). In tempi di vacche grasse il pregiudizio era fon­dato, ora di meno, e occorrerebbe evitare di re­galare queste categorie alla destra cercando di comprenderne meglio i problemi. Il come con­siste nel tornare appunto sul territorio e tra la gente per capirne concretamente le difficoltà, ascoltarla e costruire con essa le risposte politi­che dal basso alla luce della bussola dell’ugua­glianza. I social network sono ineludibili, ma i contatti diretti con/tra le persone sono ancora la migliore forma di riconoscimento e di accre­ditamento.