Giovedì, 25 Aprile 2024

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Ripensiamo la scuola

Di Matteo Martelli

ripensare la scuola2Sulla Scuola (per non dire dell’Università) si sente di tutto: nei gior­nali, nei talk-show, nel­le riviste, nei social e nel comune parlare e sparlare.
La scuola - non solo italiana - me­riterebbe, invece, una diagnosi seria. Sarebbero necessarie ana­lisi approfondite: delle strutture, delle organizzazioni, delle didat­tiche, delle pratiche quotidiane, degli investimenti. E l’esame ri­manderebbe all’organizzazione sociale, alle scelte parlamentai e governative, ai comportamenti dei genitori, alla formazione dei docenti e del personale impe­gnato nei servizi collegati all’in­segnamento, alle modalità di educazione e ai valori sociali e culturali trasmessi ai ragazzi ne­gli ambienti familiari, negli spazi sociali e in quelli scolastici. Sen­za dire dell’esempio che la classe politica offre un giorno sì e l’altro pure.

 

 

Non si tratta di sognare un mondo che non c’è. È urgente misurarsi con la realtà e opera­re di conseguenza.
Il primo tema da affrontare ri­guarda la formazione e la sele­zione dei docenti. L’Università vive uno dei periodi più critici degli ultimi 70 anni e non ha né i mezzi né le persone, adegua­tamente preparate e scelte, per consentire ai giovani di acquisire la preparazione e le competenze necessarie a svolgere il mestie­re dell’insegnante nell’epoca di Internet. L’Università meritereb­be attenzione e investimenti. La Scuola, che non può contare su persone preparate e selezionate, è costretta ad affidarsi a docenti precari, privi dello status e degli strumenti necessari ad affrontare il delicato compito della forma­zione e dell’insegnamento. Partiamo dai dati, che sono preziosi. Già nell’anno scolastico 2017-18 i numeri erano pre­occupanti: il 30% degli studenti iscritti in prima non completava il quinquennio. Nell’ultimo anno (2018-19) abbiamo registrato un significativo calo degli iscritti: 1 milione e 553 contro 1.567.00 dell’anno precedente. E il decre­mento maggiore lo registra la pri­maria: 23.000 (4,6%)! Nelle supe­riori il numero più alto di iscritti è registrato nei licei (54,6%), con­tro il 31% dei tecnici e il 14,4 dei professionali. Se controlliamo gli investimenti nella scuola e li confrontiamo con gli altri paesi europei, scopriamo dati impres­sionanti: in Italia raggiungono il 3,83% del Pil, in Germania il 4,45%, nel Regno Unito il 5,4%, in Francia il 5,43%, senza citare i Paesi del Nord Europa che impe­gnano nell’istruzione dei propri cittadini tra il 6% e il 7%.

La stampa italiana a più ripre­se ha richiamato l’attenzione sulla scuola.
ripensare la scuola3E il richiamo ha ri­guardato l’innovazione didattica e le tecnologie digitali. So che è ben attrezzato il “partito” che fa la guerra alla rivoluzione tecno­logica degli ultimi trent’anni. È condivisibile la preoccupazione di chi teme che il solo ingresso dello smartphone non migliori né l’insegnamento né l’appren­dimento. Penso, tuttavia, che la tecnologia digitale costituisca un arricchimento strumentale e culturale senza precedenti, sia per l’insegnante che per l’allie­vo. Non è certo il mero ricorso a slides, video e prodotti digitali che garantisce il coinvolgimento dell’allievo e il miglioramento del suo apprendimento. Anche in tali pratiche possono manifestarsi banalità e stereotipi culturali. La tecnologia digitale, si chiede An­selmo Grotti nel suo Come comu­nicare, ci rende più stupidi o più intelligenti? Acquistiamo o per­diamo diottrie? E quali strategie digitali sono consigliabili negli ambienti formativi? È suggestiva la differenza che Grotti segna tra “produrre” e “generare” con la convinzione che l’ambito digitale può favorire processi e sviluppa­re relazioni. Cioè arricchire l’in­segnamento. Che va collocato in un ambiente laboratoriale.

 

 

E se il tema dell’educazione alla ricerca è sostenuto dagli insegnanti più attrezzati sul piano pedagogico e culturale, non si può omettere il riferimen­to alla Legge 107/2015, di cui va profondamente rivisto l’impian­to, a cominciare dal tema del rapporto scuola-lavoro. Perché, come è stato giustamente os­servato, prima che ad una pro­fessione la scuola prepara alla vita, accompagna l’allievo nella crescita, nell’apprendimento, nell’immaginazione e nella pro­gettazione non solo del proprio futuro. Proprio nella Valtiberina, come altrove, nella seconda metà del Novecento si sono registrate esperienze virtuose di alternanza scuola-lavoro, che non condivi­dono nulla della logica della leg­ge citata, che subordina la forma­zione alle strutture e alle logiche produttive. È stato giustamente osservato: è necessario portare la conoscenza del lavoro nelle clas­si, non gli studenti a lavorare. E la stessa moratoria va richiesta per altre pratiche esaltate negli ulti­mi tempi (gli obblighi che riguar­dano sia la metodologia CLIL che le prove INVALSI). I temi urgenti come non mai riguardano l’inclu­sione e la dispersione scolastica.

La scuola in ogni paese ha un valore e una funzione politica. E chi governa, a livello locale, nazionale ed europeo, è invitato a ripensare la teoria e la pratica delle norme e delle politiche per la scuola e per l’università. Come le organizzazioni sindacali, le as­sociazioni culturali e tutti i sog­getti che intendono operare per il bene dei cittadini.

Finalizzata al ripensamento culturale della scuola italiana, ad esempio, è l’i­niziativa “Il futu­ro non aspetta”. Sappiamo che nel 2019 (Leg­ge n. 19) è sta­to reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica. Il rischio del bluff lo av­vertono tutte le persone che co­noscono la scuo­la. Come poteva succedere precedentemente, così potrà accadere oggi e domani: l’e­ducazione civica – che dovrebbe essere tema obbligatorio in tutte le discipline –, interpretata come disciplina a sé, si traduce in po­che indicazioni istituzionali e, soprattutto, in generiche nozioni giuridiche. Il progetto “Il futuro non aspetta”, indica – invece – tematiche specifiche che riguar­dano i problemi all’odg in Italia e nel mondo per contribuire alla formazione di una coscienza ci­vica: il cambiamento climatico, l’efficienza energetica, la gestione dei rifiuti, le bonifiche ambienta­li, la corretta coltivazione della terra, le abitudini alimentari e le pratiche sanitarie. E su questa strada tematiche fondamenta­li dovrebbero essere quelle che riguardano la legalità, la cittadi­nanza digitale, il diritto alla salu­te, il benessere personale e collet­tivo, la sostenibilità ambientale.

Anche le norme relative agli esami, alla fine del primo ciclo di studi e alla fine del secon­do ciclo vanno ripensate.
Ma come? Per l’anno scolastico in corso non ci sono molte novità. Sia per la fine del ciclo di base (8 anni) con l’esame di stato in terza media, sia per la conclusione del quinquennio delle superiori (li­ceali, tecniche e professionali). È stata opportunamente cancellata l’invenzione del sorteggio delle buste nell’orale dell’esame di sta­to (che ha caratterizzato l’esame nel 2019), è stato reintrodotto il tema di storia. Ma forse l’intero esame dovrebbe essere ripensato e concentrato sulla valutazione dei livelli di formazione e di per­sonalizzazione conseguiti dagli allievi.


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