Venerdì, 29 Marzo 2024

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Baghdad: un popolo in piazza

il paradigma della forza3Dopo la morte di Sad­dam Hussein si era aperta la speranza di un processo di pace e democrazia per il po­polo iracheno. Perché si è ar­rivati a questo punto?

La lotta del popolo iracheno per una società affrancata dalla ingiustizia e dalla povertà dura da almeno cento anni, ovvero da quando gli iracheni si opposero al regime coloniale britannico. Da allora in poi, tra monarchia e colpi di stato militari, fino al regime di Saddam Hussein e al post-2003, con l’invasione e oc­cupazione dell’esercito america­no in Iraq e ancora oggi, la lotta del popolo iracheno per una au­tentica democrazia continua.

Con l’invasione americana del 2003 la situazione si è aggra­vata.
Dopo il 2003 la nuova élite, in­sediata al potere con la com­plicità e partecipazione degli americani, si è spartita le risor­se del paese. L’Iraq era stato già distrutto economicamente dalle sanzioni degli anni Novanta, che avevano ridotto la maggior parte della popolazione in povertà, in aggiunta a quella determinata dalle guerre Iran-Iraq degli anni Ottanta e dalla prima guerra del Golfo del 1990-1991. Il Paese ne è rimasto lacerato. Dopo l’inizia­le spiraglio di speranza apertosi dopo la fine del regime di Sad­dam Hussein con la campagna di de-Baatihificazione del paese (da Baath nome del partito di Saddam), hanno continuato a prevalere l’ingiustizia e la corru­zione a spese della popolazione che oggi si ribella con una pro­testa diffusa in tutto il sud del paese, da Baghdad a Nassiriya, Basra, Najaf e Kerbala, le due città sante sciite, ecc. Proteste che fanno seguito a quelle del 2011 e del 2015, alla lunga estate del 2018 a Basra, città e zona ric­chissime, ma che vive una crisi ambientale e umanitaria gravis­sima a causa dell’inquinamento dell’acqua e della povertà.

Quale è stata l’evoluzione dei rapporti tra la minoranza sun­nita e quella sciita dominante nel paese?
66Purtroppo i rapporti tra sciiti (la maggioranza) e sunniti sono sta­ti determinati dal tipo di politica posta in essere dal dittatore e si sono aggravati dopo l’occupazio­ne militare. Per schematizzare: il regime di Saddam ha represso tutti gli oppositori, ma in parti­colare quelli sciiti fin dagli anni Settanta e Novanta con le rivolte delle zone del sud a maggioran­za sciita. Ma nonostante questo, durante l’epoca Saddam non esisteva una divisione settaria a livello sociale. Dopo il 2003, con l’invasione americana, la nuova élite al potere, formata da molti degli sciiti in esilio che sono tor­nati in Iraq dopo la cacciata di Saddam Hussein, sono state po­ste le basi politiche per la guerra civile scoppiata nel 2006 e che almeno fino al 2008 dividerà le comunità sunnita e sciita. Ma bi­sogna aggiungere due elementi.

Quali?
1) Questa divisione non è così radicata come si tende a pensare – sciiti e sunniti, come cristiani e musulmani, hanno vissuto sem­pre da vicini in Iraq; lo dimostra la grande quantità di matrimo­ni ‘misti’ tra sunniti e sciiti, tra curdi e arabi –. Un caro amico iracheno di Baghdad, Yahya A., mi diceva: «Dopo l’occupazione americana, ci siamo svegliati e abbiamo scoperto chi era sunni­ta e chi sciita, poi col tempo ab­biamo scoperto che c’erano dei quartieri solo per sunniti e altri per sciiti; infine con la guerra civile abbiamo semplicemente smesso di attraversare la strada o quartiere della setta opposta alla nostra, pena la vita». 2) I giovani iracheni vogliono superare questo sistema settario che ha provocato centinaia di migliaia di morti inutili, a par­tire dalla Costituzione e dalla composizione del Parlamento, per affermare con forza che il popolo iracheno è uno e che tut­ti, a livelli diversi, vivono la stes­sa ingiustizia.

Come ha reagito la minoranza sunnita a questa mobilitazio­ne popolare?
Le città sunnite non hanno or­ganizzato grandi manifestazioni per due ragioni: prima, sono an­cora devastate da anni di guerra dell’Isis; seconda, non vogliono che il governo usi la loro pro­testa per alzare lo spauracchio del ritorno della dittatura. Non voglio semplificare o eliminare il problema del settarismo, ma lanciare un messaggio: sono stati i regimi e i governi recen­ti (a maggioranza sciita ripeto e molti ex oppositori del regime di Saddam Hussein) a strumen­talizzare questa divisione a fini politici; ma il popolo, la piazza, i giovani oggi affermano: siamo una cosa sola.

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Su cosa si fonda il sistema set­tario iracheno?
Si fonda sulla Muhasasa, una istituzione che indica la divisione degli uffici governativi da parte dell’élite secondo delle quote di natura religiosa. Dal momento della sua imposizione, il sistema si è basato su tre pilastri: setta­rismo, corruzione, coercizione. Il settarismo ha raggiunto il suo culmine nel 2005 con la scrittura della Costituzione; la corruzio­ne è stata necessaria per tenere l’élite coesa, basata su un patto di distribuzione delle risorse del budget di Stato; infine, la coer­cizione, ossia la repressione di ogni critica. Basti pensare che dal primo ottobre a oggi, oltre 600 persone sono state uccise durante le proteste pacifiche, e si parla di circa ventimila feriti.

Che ruolo ha giocato la pre­senza dei fondamentalisti nel­la storia recente in Iraq?
petrolio
I fondamentalisti hanno usato la religione come bandiera ide­ologica per sottomettere chi non accettava la loro fede, ma sono il frutto di una più generale ca­tastrofe regionale causata prima dalla sconfitta araba del 1967 (la guerra arabo-israeliana dei sei giorni) e poi dell’invasio­ne sovietica dell’Afghanistan nel 1979. L’Occidente, ma non solo, ha appoggiato, per propri interessi strategici, quei gruppi che poi sono diventati fonda­mentalisti, come i mujaheddin afghani. Le invasioni ameri­cane del 2001 in Afghanistan e del 2003 in Iraq hanno ulte­riormente potenziato ed estre­mizzato quest’ala radicale della resistenza armata di ispirazione religiosa che ha radici lontane. Il gruppo più agguerrito è stato al-Qaeda che si è subito opposto alla invasione americana in for­me e con metodi che hanno con­tribuito allo scoppio della guerra civile e allo stato di permanente terrore per oltre un decennio, fino alla nascita del Califfato, la struttura statale dello Stato isla­mico nei territori occupati mili­tarmente.

Che cosa rappresenta di nuo­vo la protesta in piazza Tahrir della popolazione irachena?
Non dimentichiamo che quello che accade in Iraq è parte del processo delle primavere arabe, che hanno abbattuto il muro della paura contro le dittature. Le rivolte esplose nel 2011 e nel 2019 sono prova che il malcon­tento e la condizione perenne di sofferenza delle popolazioni in Medio Oriente e Nord Africa sono parte comune di quella ri­bellione globale contro il siste­ma capitalista neoliberale oggi in atto ovunque. L’Iraq è parte di questa ribellione globale.

Perché l’assassinio di Solei­mani è stato così dirompente al punto da portare il mondo sull’orlo di una guerra?
Penso soprattutto per le moda­lità con cui è avvenuto. In ogni caso, il 2019 è stato un anno di forti tensioni tra Iran e Sta­ti Uniti, con attacchi di diversa natura e importanza. Questo è stato il più grave sia perché è av­venuto in violazione del diritto internazionale, sia perché il per­sonaggio colpito aveva un ruolo strategico (e criminale) in Iraq, Siria, Libano e nel suo stesso paese. Non ho mai creduto che quest’assassinio, in particolare, avrebbe potuto costituire un casus belli: si tratta di guerra a bassa intensità, fatta sulla pelle dei più martoriati. Nessuno ha interesse a dichiarare una guer­ra su larga scala.

Esiste un concreto rischio che l’Iraq precipiti in una sangui­nosa guerra civile tra sciiti e sunniti?
Non in questo momento, non credo.

Di Antonio Guerrini


Messaggio da piazza Tahrir agli amici e alle amiche in tutto il mondo, ai/alle manifestanti contro le guerre, ai sostenitori e alle sostenitrici della pace della democrazia e della giustizia:

LA GUERRA CONDUCE
ALLA GUERRA

La guerra porta alla distruzione, allo sfollamento e alla perdita del futuro per milioni di bambini e bambine. Anni fa i leader mondiali dichiararono che con la guerra si sarebbe ottenuta una pace stabile e la si­curezza globale, portando democrazia e libertà al popolo iracheno. Le società civili di tutto il mondo si unirono in difesa della pace, respingendo la guerra in Iraq con manifestazioni storiche che si svolsero in molte città del pianeta. Quelle proteste avevano chiaramente messo in guardia sulle ripercussioni della guerra e sulle sue conseguenze catastrofiche, rivendicavano il diritto del popolo iracheno a determinare il proprio destino senza interventi militari esterni, esemplificavano il loro messaggio nello slogan “No alla guerra, no alla dittatura”.

Naturalmente, e come sempre, i leader mondiali ignorarono quelle proteste, spalancando, nel 2003, le porte dell’inferno che, diversamente da come è stato spesso raccontato, ha minato la possibilità stessa di costruire una pace duratura per il mondo, dando vita ad un brutale intervento militare su larga scala in Iraq. Da quel momento i popoli del Medio Oriente sono caduti in un continuo ciclo di violenze, che ha reso insicuro il mondo intero: quella guerra ha generato un’escalation che ha favorito la nascita e l’espansione dell’estremismo violento.

Oggi in Iraq, mentre vi scriviamo questa lettera, viviamo giorni rivoluzionari.
Le mobilitazioni sono iniziate ad ottobre e ancora – nonostante le uccisioni, la violenza brutale e autori­taria – la nostra rivoluzione continua. Non è un fenomeno isolato dalla storia né da quanto accaduto 17 anni fa: è piuttosto l’inevitabile risultato di un accumulo di rabbia e dolore causato da un regime, sorto dopo il 2003, la cui spina dorsale sono stati il settarismo e la corruzione, che hanno rubato alla nostra generazione il presente e il futuro.

Il popolo iracheno si sta ribellando per rivendicare il diritto ad una patria che rispetti i diritti uma­ni, in cui le persone possano vivere in pace e in sicurezza; un paese in cui ci sia libertà, democra­zia, giustizia e diritti, in cui il popolo possa decidere del proprio destino senza ingerenze esterne. Tutte le ingerenze esterne: tanto quella statunitense quanto quella iraniana. Il popolo iracheno, che ha vissuto sulla sua pelle crudeli interventi militari, si schiera contro la guerra e per l’umanità. Si schiera in solidarietà del suo vicino e fratello, il popolo iraniano.

Siamo fermamente convinti/e che questa guerra sia solo uno strumento di polarizzazione politica, usato con l’obiettivo di allontanare l’opinione pubblica mondiale dalla realtà di un movimento rivoluzionario che sta facendo sentire la sua voce in Iraq, Iran, Libano e nel resto del mondo.

È chiaro il tentativo di distogliere l’opinione pubblica da quei movimenti, formati da persone che rivendi­cano il diritto all’autodeterminazione, all’indipendenza, alla libertà, alla democrazia e alla giustizia socia­le. Sì, sono queste le nostre richieste. Lo sono dall’inizio, anche se i vostri occhi sono stati portati altrove proprio attraverso la minaccia di nuove guerre. Se dovesse tornare una nuova guerra, rischiamo di perdere tutto quello che è stato conquistato dal grande movimento di massa che è sceso in lotta qui in Iraq e nei paesi limitrofi della regione. Verrebbe minata alla radice, l’unità popolare.

La guerra sarà usata come scusa per eludere le richieste delle mas­se, causando gravi violazioni dei diritti umani e mettendo ancora più a rischio la vita dei difensori e delle difensore di quei diritti, la cui vita è già oggi sotto minaccia. Sostenere i popoli rivoluzionari del mondo e rimanere solidali con loro e le loro rivendicazioni significa tenere aperta una finestra verso un futuro libero dalla guerra. Un futuro più sicuro e pacifico, più demo­cratico e, soprattutto, più giusto.

Baghdad, Piazza Tahrir, 25 gennaio 2020


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