L’avevo già notata una sera da un tavolo del Café Poët. Rannicchiata sul marciapiede di fronte si preparava a passare la notte all’addiaccio avvolta in una coperta e due lattine di birra in grembo. Con un ringhio aveva scansato le avance di una coppia di ometti in cerca di compagnia. Me la ritrovo il mattino dopo al sole, seduta sulla scalinata sotto casa che smanetta sul cellulare. Ha un scarabeo egizio tatuato sul dorso della mano sinistra. Età indefinibile, tra i 18 e i 25 anni. Gambe e braccia abbronzate, una corta gonnellina a fiori e un giubbetto di cuoio nero. Stringe tra le ginocchia una busta da boutique di lusso in plastica trasparente. Ha occhi verdi e lineamenti alteri che i capelli biondi, tirati indietro da un elastico, illuminano di selvatica sfrontatezza. Mi ricorda la sonnambula Rodin in La foresta della notte di Djuna Barnes: “una ragazza che esala il profumo dei funghi”, “una creatura selvaggia intrappolata in una pelle di donna”. Non sono il solo a guardarla. All’angolo c’è il venditore d’ombrelli, un anziano e segaligno eritreo che per fissarla ha il turbante di traverso e quasi dimentica la colazione. Resta col croissant per aria quando vede sbucare dal mercato un maturo e gioviale pescivendolo che pulendosi le mani sul grembiule allaccia la ragazza ai fianchi e scompaiono in un vicolo. Con Carlo raggiungiamo in taxi il Museo Pierre Bonnard sulla collina del Cannes. Dove il pittore nel 1926 acquista la villa Le Bosquet in puro stile Belle Epoque, l’abita per 25 anni e riversa i colori del Midi, il giallo del sole e del grano e il blu intenso del mare, nelle opere della maturità. Confessa a Matisse: “Qui ho tutti i miei soggetti a portata di mano”. E infatti dipingerà circa 300 tele. Nel museo che non ha stravolto ma reso più fruibile l’impianto originario si snodano i vari periodi della pittura di Bonnard. Dall’iniziale movimento dei Nabis (in ebraico: i profeti, gli ispirati) fondato con gli amici Vuillard, Denis e Sérusier, sul solco di Gauguin; alle opere influenzate dalle stampe giapponesi come La donna col ventaglio, I pattinatori, i manifesti per la Revue Blanche e per France-Champagne, lo spettacolare Paravento del 1894. Segue il periodo del naturalismo impressionista con L’isola felice, Paesaggio al tramonto e lo splendido Autoritratto in controluce del 1923. Poi l’approdo al Cannet che spalanca la pittura di Bonnard e la fa al tempo stesso più intima e privata, con le scene di toilette, i nudi femminili allo specchio, la presenza di fiori, frutta e gatti domestici che la rendono “panteistica”. In mostra sulle bacheche i preziosi taccuini da disegno (1927-1946)dove Bonnard registra quotidianamente dettagli, squarci di paesaggi, volti e annotazioni personali. L’ultima fase è d’ispirazione simbolista, in sintonia con quello che un altro genio, Mallarmè, predicava in poesia: la ricerca dell’assoluto. I due si rispecchiano e s’identificano. Nel video di Yani Kassile “L’energia secondo Pierre Bonnard” che assembla anche spezzoni d’epoca si vedono gli interni originali della villa, il pittore al lavoro, l’adorata moglie e modella, Marthe, la sconfinata ammirazione che gli riserva Apollinaire, e l’entente con Mallarmè che intuisce, fulminando tutti: “L’opera d’arte è un arresto del tempo”.
CANNES LA NUIT
Ceniamo nel dehors del ristorante Beryte all’ombra dell’Hôtel Miramar che domina la Croisette come un’imponente meringa di marmo. Siamo nel regno della cucina libanese, con gli antipasti (mezzé) che sono il compendio dell’intero Mediterraneo: l’hummus (crema di ceci e tahina), il baba ganush (caviale di melanzane), i falafel (polpette di fave) , il tabbouleh (insalata di bulgur) e le maranek, salsicce speziate in succo di melagrana. Le carni alla brace sono un trionfo di spiedini d’agnello, di pollo e vitello. Ma elencati in arabo, mechoui, taouk e kefta, dal giovane e sorridente cameriere suonano più gustosi. Il ragazzo sarebbe incantevole se al posto della tenuta da sala indossasse una djellaba e profumati gelsomini all’orecchio. Perché s’intuisce al volo che non è libanese ma tunisino. E infatti ci conferma che è di Bizerte. La cena si conclude con un budino di latte ai fiori d’arancio e pistacchi e un bicchiere d’arak ghiacciato. Allettante arriva da una saletta l’aroma dolciastro della shisha che con Carlo degustiamo a Parigi nei caffeucci arabi della Goutte d’Or. Ma qui siamo nel quadrilatero del lusso sfrenato e le boutique con le griffe più prestigiose sono sirene irresistibili. Anche per gli indifferenti. Perché non è più l’abito o l’accessorio al centro della scena, neanche nelle sfilate, ma l’effetto teatrale che l’accompagna. Mi limito a stenografare alcune impressioni. Louis Vuitton ha le vetrine ispirate a Star Wars di Lucas. Sullo sfondo triangoli e prismi luminosi da viaggio intergalattico e gli abiti tutti sportivi e casual interamente stampati con le lettere del logo. Come fossero bauli e valigie, a conferma dell’ossessione per il capo “firmato”. Più sensuale e barocca è la boutique di Dolce&Gabbana che riproduce sulle stoffe le icone del folclore siciliano: carretti, pupi, cuori votivi incoronati di spine, pigne e teste di moro di Caltagirone. In un décor minimalista le vetrine di Salvatore Ferragamo espongono borse e scarpe come fossero gioielli esclusivi. Hermès invece ricorre alle surreali e impossibili architetture di Escher per alternare flaconi di profumo a eleganti décolleté col tacco a biglie di vetro. Su un giardinetto di grottesche sculture in ceramica s’affacciano le vetrine di Fendi con abiti per signora dal taglio severo e guarniti di ricami da paramento liturgico. Accanto c’è Bottega Veneta che espone un solo preziosissimo capo. Appeso a una gruccia un impalpabile trench femminile di nappa color avorio emerge dal buio in compagnia di due laccate ballerine rosse. Mi risveglia dall’ipnosi il prezzo: 6900 euro. Ma è la boutique di Gucci a stravincere su tutte. Qui Alessandro Michele mescola il barocco col punk, il rinascimento col futurismo, il vintage con la streetwear. Nella sua idea di moda il passato, presente, futuro non si escludono ma si sommano, annullando idealmente il tempo. Il risultato è un “frullato di bellezza” che accosta le sneakers alla giacca vittoriana da camera, il parrucchino spennacchiato di Wharol a una cascata di anelli e collanine indiane, le pantofole da sera ricamate a una maglia a righe blu da marinaio. Perché, per chi l’ignorasse, abitiamo “il tempo delle ritornanze”.
DENTRO LA MOVIDA
La lunga passeggiata ci ha portati nel cuore della movida notturna. Siamo all’incrocio tra rue Bategnier e rue Monod, in una piazzetta con vari caffè e un ristorante italiano coi tavoli all’aperto dove un complessino fa musica dal vivo straziando le cover dei Gipsy King. E quel che è peggio azzarda “Bella ciao” stonandola penosamente. Il proprietario è un quarantenne napoletano, capelli cotonati e giacchetta attillata, che insieme a tre bionde invasate milanesi, genere mildf, fanno le fusa a un marcantonio arabo che finge di stare al gioco. Il giovanotto è un tronco d’uomo. I francesi direbbero costeaud. Sembra più nudo che vestito nel gilet di cuoio slacciato, i jeans strappati sotto l’inguine e una berretta di lana calata sugli occhi. Ha la sensualità torva dei gigolò e dei magnacci celebrati da Genet: “A Gorgui gli bastava sfregarsi un poco, con l’aria più sbadata il bozzo che quelle [le checche ndr] non potevano più staccarsi da lui che le attirava come la calamita la limatura di ferro”. Un gesto però insospettisce: continua a calcarsi la berretta sul viso. Che voglia nascondere rasoiate? Oppure è solo un pusher che teme d’essere ripreso dai cellulari. Si spiegherebbe così la manfrina di risate isteriche, di tette al vento e gli sfacciati palpeggiamenti. Sono tutti in cerca dello sballo. Tra musica spacca timpani, alcol a litri, selfie di gruppo con smorfie e linguacce e nelle toilette coca e pasticche per continuare a fingere lo spasso. Svoltato l’angolo entriamo in rue des Frères Radignac dove s’affacciano discoteche e locali di lap dance e strip-tease che neri e giganteschi “buttadentro” ti spingono a varcare: ”Cercate belle ragazze?”. Fatichiamo a fendere la calca. Cotti di stanchezza e anche nauseati, in taxi ci allontaniamo dalla bolgia. La Croisette di notte è una fiaba. Le palme illuminate, le aiuole impeccabili, le sanisette igieniche come edicole déco, la quinta scintillante dei grandi alberghi, il Miramar, il Martinez, il Grand Hôtel, il Carlton, le hall sfarzose e i portieri in divisa all’ingresso, i dehors in stile Belle Epoque, le boutique di Prada, Armani, Celine e Dior, il Palazzo dei Festival e dei Congressi con la celebre montée des marches (scalinata)) rivestita del tappeto rosso, e sul piazzale antistante, meta devota di tutti i cinefili, le impronte delle mani di attori e registi che si sono aggiudicati il Palmarès. Siamo arrivati a casa. A nanna, bimbe!
di Ivan Teobaldelli