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Con la fine della Guerra Fredda i teorici americani della fine della storia avevano preconizzato la vittoria del sistema capitalistico su quello comunista. Ma poi le cose sono andate diversamente. L’Europa ha perso un’occasione in quel momento?
Il 9 novembre 1989 è stato vissuto nell’Occidente come la fine di un modello, quello comunista. Quel giorno ha rappresentato la speranza di un nuovo percorso per quella Europa che era nata con il trattato di Roma. Ma il cammino sin dall’inizio è stato caratterizzato da enormi incertezze politiche, basti pensare alle posizioni italiana, francese e soprattutto britannica, che esprimevano un favore al mantenimento di fatto del precedente assetto geopolitico e persino del Patto di Varsavia del 1955. L’unificazione tedesca ha indicato invece un percorso diverso convincendo gli altri paesi ad avviare un processo di forte integrazione europea in cui collocare la nuova Germania. Il trattato di Maastricht e l’unificazione monetaria sarebbero stati individuati come gli strumenti più efficaci.
L’Europa monetaria è oggi additata da più parti come incompiuta.
L’Europa non può essere che uno spazio comune di diverse appartenenze etniche, religiose e culturali – diceva Dahrendorf –, voltare le spalle all’idea di questo spazio comune significa inevitabilmente l’intolleranza all’interno e l’ostilità all’esterno. Il suo modello si identificava in quello della Confederazione di Stati. Anche per Habermas l’Unione Europea non doveva esistere soltanto sulla base dei trattati internazionali, ma avrebbe dovuto superare i limiti dello stato nazionale per arrivare a un “patriottismo costituzionale” da innervarsi in una Costituzione Europea.
Ma questo processo di unificazione non si è verificato. Ciò significa che il progetto è destinato a fallire?
Non credo che l’Europa abbia definitivamente perso l’occasione, perché il processo di unificazione è per sua natura complesso e ha inevitabilmente un percorso non lineare caratterizzato da stop and go.
Dagli anni ’90 abbiamo assistito in Italia, e non solo, alla crisi della rappresentanza: i partiti che quasi scompaiono, sostituiti da Liste elettorali e/o partiti personalizzati o “di proprietà”. Più aumenta la passività della società civile più cresce l’esigenza del “capo”?
La crisi della democrazia e della rappresentanza politica è un fenomeno generalizzato in un mondo globalizzato e certamente l’Italia non ne è esente. Un ruolo decisivo lo ha giocato la comunicazione politica attraverso i nuovi media, in primis la televisione, e la comunicazione si semplifica, si spettacolarizza, i tempi per le analisi si riducono, si esaltano aspetti scenografici, caratteriali; in definitiva il politico diventa personaggio, attore, la politica si personalizza, il politico diventa un brand.
Di fronte alla crisi delle forme tradizionali di rappresentanza si affermano le risposte più semplici e arcaiche, quelle della immedesimazione nella figura del leader – più o meno carismatico – percepito come soluzione messianica alle difficoltà, soggettive e collettive del presente.
Lei è stato uno dei protagonisti dell’esperienza dell’Ulivo, anch’esso in qualche modo una risposta alla crisi dei partiti e della rappresentanza di allora. Perché quell’esperienza è fallita?
L’Ulivo nasceva come il tentativo ambizioso di superare il vecchio meccanismo delle alleanze post-elettorali in un progetto di convivenza di storie e anche ideologie diverse. Vi erano, secondo la consolidata codificazione: la sinistra riformista, i liberali, i cattolici democratici, gli ambientalisti, i socialisti, i comunisti “riformati”; ed era al contempo il tentativo di dare una risposta alla crisi ormai evidente della democrazia e della rappresentanza politica tradizionale, accentuata in Italia dalla stagione di Tangentopoli.
A cosa è dovuta la sua sconfitta?
Alla permanenza delle singolarità partitiche all’interno della coalizione e all’assenza di un proprio nuovo soggetto politico. Ricordo che un giorno nel suo ufficio a Palazzo Chigi chiesi a Prodi perché non strutturava un partito de l’Ulivo e la risposta fu: “perché metterei a rischio il governo”. La prudenza di allora non servì a salvare il Governo dalle diffidenze e dalle piccole o grandi pretese dei diversi azionisti della coalizione.
Una risposta alla crisi dei partiti è sembrata essere a un certo punto quella dei 5stelle, del messianismo telematico. Abbiamo visto che la realtà è ben diversa, e che i 5stelle stanno affondando per cause endogene.
Si tratta di fenomeni già noti e periodicamente ricorrenti. Basta scorrere l’elenco dei movimenti e partiti dal secondo dopoguerra a oggi. Nel caso dei 5stelle assistiamo però alla massima concentrazione, alla esaltazione e alla istituzionalizzazione di tutti quei caratteri tipici delle formazioni populiste. Marco Revelli definisce il populismo come il sintomo di un male più profondo della democrazia e si manifesta quando una parte del popolo o tutto il popolo non si sente rappresentato. È una specie di malattia infantile della democrazia all’inizio del ciclo democratico, quando ancora il suffragio non era universale. E poi diventa malattia senile oggi, quando l’estenuazione dei processi democratici e il ritorno di forze oligarchiche nel cuore delle democrazie mature rimettono ai margini o tradiscono il mandato di un popolo che sente di non avere né voce né potere alcuno.
E quindi si nasce come alternativa alla élite al potere, identificata come il nemico ed il responsabile di tutti i mali passati, presenti e futuri. Ci si autoproclama veri rappresentanti del “Popolo” o per essere più eleganti e apparentemente più istruiti si scopre su Wikipedia che suona meglio il termine “Cittadini”. Si pensa di superare brillantemente il vecchio dualismo destra/sinistra per approdare opportunisticamente sull’opportunistico e traversale concetto di “Oltre”. Non siamo né di destra né di sinistra! Si pratica la cd. “Democrazia Diretta” attraverso il web, in realtà usato come strumento di centralizzazione decisionale e marketing.
Ma, al netto del fallimento dei 5stelle, la risposta può essere quella del Pd, fondata sulla coesione di un gruppo dirigente arcaico e sconfitto, e sulle cooptazioni fiduciarie di persone scelte sulla base della obbedienza e non delle capacità?
Il Partito Democratico nasce sulle ceneri dell’esperienza dell’Ulivo, con alcuni vizi originari, tra cui quello del “Partito Maggioritario”. Da allora il principio maggioritario si è dapprima trasformato in autosufficienza e alla prima sconfitta è stato subito messo da parte. Il partito federale si è trasformato in una aggregazione correntizia dove la mediazione si trasformava in negoziazione di posizioni di potere e avveniva tra i capicorrente. Le nuove forme di militanza, - quali poi?- non si sono realizzate ma si è nel frattempo smantellata la rete organizzativa della comunità degli iscritti o dei simpatizzanti. Il colpo di grazia è stato dato con la personalizzazione del partito. Inoltre la classe dirigente è passata dai leader forgiati dalla resistenza al nazifascismo, ai loro allievi cresciuti partendo dalle esperienze politiche e amministrative locali per approdare poi con un lungo cursus honorum alle aule del parlamento, fino ad arrivare alle segretarie, ai portaborse, ai funzionari…
Di Luciano Neri