Quarantena inglese

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Castellani all'estero raccontano l'epidemia

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Un tifernate ormai di una certa età, da lungo tempo in Inghilterra, mi ha appena raccontato quello che è avvenuto all’inizio del “lockdown” britannico: «I provvedimenti sono stati presi in ritardo rispetto all’Italia. Ora tutti devono stare in casa, uscire singolarmente oppure accompagnati da un parente una sola volta al giorno per fare le commissioni, evitando qualsiasi contatto con altre persone che non facciano parte della propria famiglia». All’inizio ci sono stati momenti di panico davanti ai supermercati.

Il National Health Service ha inviato una lettera alle categorie dei cittadini più vulnerabili, anziani e persone con varie patologie: «Il comportamento più sicuro per lei è restare sempre a casa ed evitare ogni contatto ravvicinato con altre persone per almeno 12 settimane da oggi». Il ministero ha inoltre fornito un numero telefonico governativo per chiedere assistenza.

Isolato nella sua “quarantena precauzionale”, l’amico anglo-italiano si è visto recapitare un pacco di generi alimentari: «Arriva uno sconosciuto guantato e con la bocca protetta da una piccola maschera. Porta una grande borsa di carta bianca. Preme il campanello, lascia la borsa di fronte al portone e se ne va.  Apro per salutarlo ma ormai è già lontano. Mi accorgo che la borsa di carta è piena di alimentari, dono delle autorità locali a quelli che non possono più farcela da soli per motivi di malattia o altro. È un dono delle autorità municipali a me che mi è stato vietato d’uscire di casa a causa del morbo. Mi sento  molto a disagio e d’un tratto capisco quello che potrebbe provare un rifugiato».

L’episodio gli ha fatto tornare in mente ricordi della sua gioventù, vissuta nella povertà a Città di Castello, quando d’inverno i più indigenti facevano la fila per un pasto caldo gratuito alle cosiddette Cucine Economiche e ricevevano in dono pacchi di generi di prima necessità inviati dai paesi più ricchi: «Questo gesto di puro calore umano mi ricorda le lunghe file fatte con la mamma a Città di Castello nel dopoguerra, per ottenere dalle autorità cittadine un piatto di minestra e una pillola piccola ma magica dal color giallo-oro. Erano doni e mi venne detto che la pillola conteneva olio di un pesce che non sapevo esistesse [olio di fegato di merluzzo]. Inutile chiederlo alla mamma tanto mi avrebbe risposto scrollando le spalle ripetendo ciò che diceva tutti i giorni: “Quello che non ammazza, ingrassa”. Comunque la minestra era buona e riempiva lo stomaco. Da lì la mente ritorna ai pacchi che i miei ricevevano dalle autorità tifernati; pacchi pieni di pasta e di vari prodotti  incluso quello che la mamma usava per lavare i panni lamentandosi del fatto che non faceva schiuma e che si disintegrava molto presto. Imprecando, dava la colpa alle nazioni straniere da dove provenivano i pacchi, che non conoscevano il vero sapone. Fintantoché il babbo, che di queste cose ne sapeva di più, le disse che non si trattava di sapone ma di formaggio inglese o americano».

Di Alvaro Tacchini