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1885, la tragedia

Cronache d'epoca

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Era la metà del mese di luglio del 1885 quando Città di Castello fu colpita dal “colera asiatico”. Scrive in proposito Giuseppe Amicizia: «Anime, quante ancora vivevano entro la cerchia muraria, nei due mesi che nel convento di sant’Antonio fu aperto un ospedale provvisorio, il lazzaretto, dove delle 108 persone entrate ne morirono 62. Nelle altre pati della città gli ammorbati furono 276, ne morirono 128». Il 2 agosto – scrive padre Riccardini – «l’immagine della Madonna delle Grazie venne portata in processione seguendo la via di Campo dei Fiori , luogo tra i più colpiti dal morbo». Angelo Falchi, poliedrico personaggio della prima metà del secolo scorso, “anche” cultore della vita cittadina, ebbe a scrivere nel periodico “Plinio il Giovane” nel 1913: «Il giorno dopo la processione di scongiuro, sia detto senza ombra di d’irriverenza, in Via dei Randoli morirono 16 persone, 6 di una sola famiglia». Sempre il Falchi racconta che a suo tempo ebbe modo di parlare con due anziane donne che vissero al tempo del colera, Carolina Bagiacchi e Matilde Spaccialbello, le quali con estrema lucidità ricordano: «Tutto cominciava con il vomito, diarrea e dolori intestinali violentissimi. Dalla strada si sentivano le urla degli appestati rinchiusi in casa. Da carretti spinti a mano e coperti alla meno peggio spindolavano braccia dei morti che venivano portati ai Cappuccini Vecchi, più su del Gorgone – continua la testimonianza delle donne –. Ebbero a distinguersi i frati di San Francesco nel portare aiuto ai colpiti dal morbo…». In questa tragedia si inserì una donna, conosciuta come la Romanina, la quale andava per le case colpite dal colera a “vestire i morti”, poi con un carretto li portava alla sepoltura. Riceveva in compenso qualche soldo. Il nome della Romanina era foriero di tragedia… È passata la Romanina… La gente si segnava «la Romanina è entrata in casa Beni… allora la povera Assunta è agli sgoccioli…». Oltre i frati di san Francesco furono tanti i tifernati che si prodigarono nel soccorso degli appestati. Erano questi il dottore Filippo Covasei, che rimase nel “lazzaretto” a curare colerosi per tutto il tempo che durò il contagio.

1884… LA FARSA

Non è detto che Carlo Marx nell’evidenziare le contraddizioni e le crisi del Capitalismo le abbia azzeccate tutte. A occhio e croce tutte no… visto come è andata a finire. Però, di certo, una cosa azzeccò quando ebbe a dire: «La storia si ripete sempre due volte: la prima volta in tragedia, la seconda volta in farsa». Della tragedia si è parlato. Ora avanti con la farsa. Tutto cominciò quel mese di agosto 1884 quando in varie città d’Italia riapparve il colera. Si dà il caso che in quei giorni si trovassero a Città di Castello (a fare cosa non è da sapere) alcune famiglie di La Spezia, città coinvolta nel morbo. Così il Municipio, memore di quel che successe nel 1856, senza pensarci due volte , emise un provvedimento «per prevenire il colera e provvedere l’isolamento di alcune delle famiglie provenienti dalla Spezia, il Municipio impianta un lazzaretto nel convento di San Giovanni (Zoccolanti) fuori Porta Santa Maria». Così scrive Giuseppe Amicizia. E agli Zoccolanti furono allocati gli spezzini in quarantena. Inoltre, sempre dal Comune, furono emanate drastiche misure per prevenire il colera che non venne. «Si vieta di gettare dalle finestre materie putride e acque fetenti, di far passare per le vie interne della città, pecore, suini, vacche e buoi, di non ammassare letame nei fondi e fuori della porta». Si fanno sentire anche i periodici locali «le vie della città sono sempre più sudice, il pubblico si serve di luoghi più o meno appartati per fare i suoi “comodi”…». Già, ma lassù agli zoccolanti i reclusi in quarantena cosa fanno? Si annoiano aspettando il feral morbo? Ma neanche per sogno! «I rinchiusi nel Lazzaretto sono lasciati liberi e vanno tranquillamente a caccia» si scrive. Questo suscita sgomento in città. Sconcerto che si trasforma in sana invidia quando si sparge la voce che ai quarantenati «siano imbanditi lauti pranzi», e si invita il Comune «a provvedere seriamente, onde siffatti inconvenienti non abbiano luogo».Così, qualche superstite del colera del 1855 volle dire la sua: «i t’ho ditto Giovana che tu canti! Ché te sdelorgni come ‘n acidente / dovessimo, perdia, esse contente, / che presto no’ giremo ai Zocolanti. E atachèto al palazo e ‘n tutti i canti / che ‘gni ampesteto sia subitamente portèto via de chèsa, e degnamente / sia tratèto a bragiole e vin de Chianti maghera, dongua, ci si arancase / o meio me paresse e pu che ‘n fosse! / Magneremo ‘na ‘olta a du ganase / melassù ci girebbe via la tosse, / e senza manco el conto da pagase / s’artornerebbe a chèsa grose e grose.

El nipote de Buzzino

E il colera non venne. «Si informa la popolazione che il colera si è manifestato in forma benigna e quindi nessun pericolo minaccia la nostra città, comunque viene fatto obbligo di rimuovere le concimaie che si trovano nelle vie cittadine e ripulire le cerche mefitiche della città». 

Di Dino Marinelli


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