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L'antica compagna

  DOSSIER

il paradigma della forza3

«“A peste, fame et bello – libera nos, Domine…”. Il popolo cristiano affrontava il “nemico” con la preghiera, chiedendo al Signore di tener lontani da lui una serie di flagelli, dalle tempeste alle invasioni delle locuste, alle incursioni normanne o saracene (mamma li turchi): i “quattro cavalieri dell’Apocalisse”, la guerra, la fame, la peste e infine la morte, esito fatale delle altre tre». Con questa antica sequenza liturgica inizia il colloquio con Franco Cardini, storico di indiscussa fama internazionale, sui flagelli della storia e quello attuale.

Ma oggi le cose sono cambiate.

«Le epidemie nella storia arrivano sempre inaspettate, per cui il loro insegnamento va sempre ricapitolato».

In cosa è paragonabile l’ epidemia di Covid-19 rispetto ai flagelli del passato?

«Naturalmente ci sono delle costanti e delle varianti. Le costanti si manifestano con una omogeneità che colpisce. Le variabili dipendono soprattutto dalle mutate condizioni mediche».

Partiamo allora dalle costanti.

«Le pandemie nel corso della storia sono state molte, ma ricordiamo in particolar modo quelle più documentate: l’epidemia che colpì Atene (430-429 a.C.) sotto il governo di Pericle raccontata da Tucidide; nel secondo secolo d.C. (106) ci fu in tutto l’impero romano la cosiddetta “peste antonina” così nominata perché non viene (da) sotto un imperatore solo, l’imperatore Antonino Pio, ma (da) sotto tutta la dinastia degli Antonini dominante in quel secolo; a metà del VI secolo c’è la peste di Giustiniano».

Come vengono affrontate e con quali strategie?

«La “peste Antonina” venne raccontata dal più grande medico dell’età romana, Galeno. Il quale afferma che “la Bestia” non si può fermare, e scappa. La fuga di Galeno è sintomatica, perché scappa in luoghi isolati, fugge dalla città e si ritira lontano da essa. Da subito gli atteggiamenti prevalenti sono l’isolamento e la quarantena per difendersi dall’epidemia, come si fa oggi. Atteggiamento saggio, perché, come dice il mio medico, certe malattie è meglio non prenderle che curarle, la prevenzione è meglio della cura».

Siamo rimasti alla peste di Giustiniano.

«Sì. Quella fu raccontata da Procopio di Cesarea. Nella grande tradizione storica, a ogni evento ci si attacca un cartellino di un personaggio o più personaggi coinvolti (Pericle, gli Antonini, Giustiniano, ecc.) o di uno storico che li ha descritti: Tucidide, Galeno, Procopio».

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Poi si arriva alla peste nera del Medio Evo?

«È la peste per antonomasia quella del 1346-1352 descritta dal Boccaccio nel Decameron, che ha avuto una incidenza circolare perché è partita dal Mar Nero, ha attraversato il Mediterraneo, il canale di Sicilia, ed è segnalata a Messina alla fine del 1347, poi sbarca a Genova, a Marsiglia e Barcellona, e da qui impesta tutta l’Europa e torna in Russia, nelle pianure euroasiatiche da dove aveva preso origine e si perde nel 1352. Un cronista russo ricorda proprio il giorno in cui vide un fiume (forse il Volga) diventare nero di topi che scappavano a nuoto dalla costa europea verso la costa asiatica, e questo cronista dice: “con i topi sparisce la peste”».

Oggi sono gli aerei i responsabili del contagio, si dice, una volta erano le rotte commerciali.

«Le navi trasportavano il grano dalle pianure afro-asiatiche attraverso il Mediterraneo, nel grano c’erano i topi (apposta nelle navi si portavano i gatti, ma evidentemente non bastavano), che portavano con sé le pulci nel cui stomaco c’è la Pasteurella pestis responsabile della epidemia».

Dunque nel 1352 la peste scompare.

«È quasi impossibile che una epidemia venga debellata completamente: in genere perde d’intensità, si nasconde, sopravvive a livelli “endemici” salvo magari riaffiorare con mutati caratteri. Poi rimane nei grandi ospedali dell’Europa centrale, strutture moderne e attrezzate, all’interno delle quali c’è sempre un reparto per gli appestati, così viene confinata e controllata. Si è ripresentata molte volte sempre con lo stesso nome, ma con quel termine si indicava tutto ciò che era epidemico e portava distruzione. I nostri padri definivano con termini come l’ebraico deber, il greco loimòs e il latino pestis affezioni contagiose di tipo diverso come le epidemie di tifo esantematico e il vaiolo: con le quali il pur temibile bacillo della Pasteurella pestis non ha nulla a che vedere. Bisogna ricordare la peste del ‘600, descritta dal Manzoni nel saggio La Colonna Infame e nei Promessi sposi. Il colera è stato lo spauracchio dell’ 800. Poi ci sono quelle moderne, a partire dalla Spagnola del 1818, che fece molti danni, e a distanza di un secolo quella attuale che presenta caratteristiche simili».

Come si spiegavano tali eventi in passato?

«Comune era la sensazione che fosse “l’aria” a trasmetterle e che particolari condizioni di temperatura atmosferica (il “freddo”, il “caldo”) le favorissero.

Il fatto è che, in effetti, come il clima è dominato da una “sinusoide” che grosso modo ogni 500 anni consente il passaggio da una fase di calore più alto possibile (un optimum, come con un certo eufemismo ottimistico si ama dire) a una di massimo raffreddamento (un pessimum), così le grandi epidemie sembrano seguire analoga alternanza».

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E come ci si curava?

«Ci si “vaccinava” ammalandosi e guarendo, mentre chi non aveva passato tale trafila non ce la faceva. Nell’America latina del Cinquecento una malattia contagiosa tanto poco mortale come il morbillo, che appunto colpiva i bambini e di solito passava (morbillus: “piccolo morbo”), era tollerata con tranquillità dagli spagnoli – che ne erano appunto “portatori sani” –, ma faceva strage tra gli indios. E non parliamo delle coperte infettate dal vaiolo che il governo statunitense faceva distribuire, insieme con generose partite di pessimo whisky, alle tribù dei native Americans che facevano l’errore di fidarsi di lui (come dice in una sua canzone Fabrizio de André ricordando quei vecchi genocidi che sono stati perdonati anzi dimenticati d’ufficio, e dei quali è maleducato parlare, “e al Dio degli inglesi non credere mai”: dove inglese sta, ovviamente, per yankees)».

image 101Che cosa la colpisce in questa epidemia del Covid-19?

«Come storico vedo il suo iter simile a quello delle epoche precedenti. Il contagio prima si manifesta in maniera incerta e sporadica, e si tende a sottovalutarlo o a negarlo. Poi, mano a mano che si diffonde, si genera un’ansia sempre maggiore, che può giungere a livelli d’isteria collettiva. In questi casi succede di tutto: gli ammalati vengono ritenuti responsabili della loro affezione; si passa poi facilmente a teorie più o meno complottistiche (gli “untori”, le streghe o i malfattori assoldati da potenze nemiche i quali “ungono le porte” o “avvelenano i pozzi”, i cinesi che mangiano i topi, sono sporchi, eccetera): e nascono molte leggende, le quali magari poi si folklorizzano. L’esperienza – empirica prima, scientifica poi (in Europa dal XVIII secolo) – insegna a difendersi: e allora alla farmacopea tradizionale fatta di solito di unguenti e polveri “odorose” atte a “purificare l’aria” succedono i farmaci efficaci».

Dunque la scienza ha detronizzato la fede e le alchimie?

«Le armi che il sapere allora riusciva a mettere in campo per fronteggiare l’epidemia erano queste. Attenzione però a definire quelle pre-illuministiche come credenze pseudo-scientifiche. La differenza semmai è di altra natura».

Quale?

«In passato prevaleva la convinzione che tutto fosse sovrastato dalla volontà divina. Dall’Illuminismo in poi, invece, l’Occidente ha cominciato a ragionare per individui e non come collettività».

 

Cosa cambia tale assunzione?

«Che avendo assolutizzato l’individuo abbiamo rotto il cordone con il sacro. Noi occidentali abbiamo scoperto una quantità di cose, abbiamo fatto progredire la conoscenza umana, ma abbiamo perso il senso del sacro».

Quali sono le conseguenze di questa rottura?

«Abbiamo tagliato le radici che ci tenevano in contatto con la dimensione trascendente: questa è la vera grande epidemia attuale, la nostra selvaggia e disperata paura. Sono stato poco tempo fa in India e alcuni medici locali mi hanno confermato che aveva ragione Madre Teresa: la differenza tra un orientale e un occidentale è l’atteggiamento di fronte alla morte. Noi occidentali ne siamo terrorizzati, non sappiamo più morire» 

...avendo assolutizzato l’individuo abbiamo rotto il cordone con il sacro. Noi occidentali abbiamo scoperto una quantità
di cose, abbiamo fatto progredire la conoscenza umana, ma abbiamo perso il senso del sacro

 

A cura di Achille Rossi e Antonio Guerrini


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