POPOLI INDIGENI. Intervento di Moira Millan, Mapuche, attivista del Movimento Donne Indigene per el Buen Vivir
Mari kom pu kom pu lamnegen ka pu wenuy Ka kom pu Che! Kigneke gni dungun fachiantu may (un saluto alle sorelle e agli amici, ai quali dedico queste parole). Oggi vi racconterò come sto vivendo la mia quarantena. Io sono fortunata perché ho abbandonato la futawarria (la grande città) tempo fa. Ho avuto la certezza 20 anni fa che un territorio mi chiamasse lontano dalla città e ho seguito il suo richiamo. Oggi so che quelle grandi carceri con sbarre invisibili, chiamate metropoli, già sono più visibili.
I terricidi del mondo hanno scoperto metodi più efficaci di controllo, sanno come produrre paura, come investire milioni di dollari in armi. Ci hanno convinti che loro, gli stessi che ci ammalano, ci salveranno, gli stessi che ci tolgono la libertà ci incitano alla rassegnazione come resistenza contro il nuovo nemico. Questa volta non è un gruppo terrorista è un virus. Non possono continuare a inventarsi guerre, il militarismo è passato di moda, adesso la minaccia non è umana, è invisibile, è virale. Non si parla degli altri pericoli letali che attaccano la salute dei popoli. Silenziano le voci dei corpi affamati che urlano di fame, perché questo sistema è stato costruito e sostenuto dai terricidi, un sistema che ci divora e che si ingrassa con i popoli che consuma.
La quarantena mi ha sorpresa qui nella comunità Mapuche Pillan Mahuiza. La vita trascorre in funzione del tempo scandito dalla Natura, ci abbracciamo, ci riuniamo intorno al fuoco tutte le sere, condividiamo i pasti comunitari, le nostre parole e il cielo stellato che ci illumina. Ci dividiamo le faccende nelle giornate intense: siamo 8 donne, 3 uomini e 2 bambine. La maggior parte di noi sta nelle tende, perché la quarantena è arrivata mentre costruivamo le nostre case. Lo stato non ci permette di comprare materiale da costruzione, forse crede che il coronavirus si possa contagiare passando mattoni e cemento, però si possono comprare bevande alcoliche, che non hanno subito alcuna limitazione. Questo è stato un fattore determinante in tante comunità indigene per l’incremento della violenza di genere. Fortunatamente nella nostra comunità l’alcolismo non esiste.
L’autunno è arrivato, con i suoi magici colori, dipingendo il paesaggio di rosso, arancione e giallo. E con lui è arrivata anche mawun (la pioggia), abbondante e fredda; tende e coperte ... tutto si allaga, dobbiamo togliere l’acqua e questo ci stanca e ci dà rabbia: perché vivere questa situazione se si poteva evitare? Perché il centralismo porteño (di Buenos Aires) uccide! È arrivato anche il ghiaccio, e le brine. C’é un mantello gelido e brillante sulle tende, il rischio di ammalarsi è maggiore, non di Coranavirus ma di polmonite o altre malattie respiratorie. Lo stato appare nelle nostre vite come un ente repressore e negazionista, io come Mapuche non conosco stato o nazione che agisca diversamente, e mi chiedo: come vivranno questa quarantena le mie sorelle zapatiste? E il dignitoso popolo di Cheran con il suo autogoverno? L’autogestione e la creatività nascono dentro di noi, siamo abituate a risolvere le situazioni di emergenza quotidiana. Con stufe di fango combattiamo il freddo, chiudiamo gli spazi collettivi riciclando la spazzatura che ricoperta di fango diventa muro, forte e robusto. Ci reinventiamo i vestiti e le coperte, ci organizziamo per i pasti dosando il consumo degli alimenti freschi, passiamo la giornata andando a prendere l’acqua, tagliando legna, raccogliendo funghi e frutti, facendo dolci e pane. Ci prendiamo pure il tempo per ridere, parlare, giocare, giochi come il wixalxipal dell’alba.
In questi giorni ho vissuto in modo speciale la cerimonia per la fertilitá riproduttiva del mio corpo e ho ringraziato la Mapu a pu ñgen, pu ñnewen y kuifikecheyem (la terra, gli spiriti della terra, le forze della natura e quelle ancestrali) per le mie multiple maternità, non solo per i figli che mi ha dato, ma anche per i miei nipoti e per la mia generazione futura. Mi sono rasata la testa e la mia lunga treccia è stata offerta alla mia terra. Non era solo gratitudine e richiesta di aiuto, ma anche un recupero di una parte della mia storia, dei miei primi momenti di vita, e dargli un nuovo significato.
Una settimana dopo la mia nascita mi hanno rasato la testa e una nipote di mio padre, quando mi ha vista, ha detto: “assomiglia a Peyenka!”Questo provocò grandi risate e da allora, e per tutta la mia infanzia, così che mi hanno chiamata: Peyenka. Ma chi era Peyenka? L’ho scoperto unendo frammenti sfilacciati di memoria materna e di anziane amiche di mia madre. Peyenka era una donna tehuelche, alta e bruna, con una faccia grande e robusta, che all’inizio della sua adolescenza fu violentata dai soldati argentini. Dopo quell’episodio si rasò i capelli, provava paura e disprezzo per gli uomini, parlava solo con le donne, vestiva di stracci e di quello che un tempo era stato l’abbigliamento della sua gente, un hueralca di chulengo (un mantello di pelle di giovane guanaco). Non fu mai assimilata dagli invasori, e mai si lasciò integrare. Per questo le persone “civilizzate” la consideravano pazza e la deridevano. Da bambina mi vergognavo del fatto che il soprannome scelto per me fosse quello di una pazza.
Oggi sono onorata e fiera di portare quel segno nella mia storia personale: una donna coraggiosa e forte, che non voleva dimenticare, perdonare o negare la sua identità. In qualche modo la mia testa rasata mi ricorda anche il chineo (lo stupro normalizzato di bambine da parte dei fazeinderos), le migliaia di donne violentate e lo stupro da me subìto a 18 anni, che ho taciuto a lungo, per vergogna e per paura. Mi ricorda che questo Stato nei nostri confronti è rimasto lo stesso. E, come Peyenka, non mi fido di lui.
Mi ricorda anche come hanno strappato potere alle donne, rompendo il sacro legame tra l’utero delle donne e l’utero della terra; quella perversa matrice “civilizzatrice” ci ha convinte che questo sacro legame apparteneva solo alla nostra fedeltà all’uomo e lo attribuiva al matrimonio. Menomate nella nostra memoria ancestrale, ci abbiamo creduto, determinando una profonda solitudine per effetto della separazione dalla nostra terra.
So che i miei capelli cresceranno, come crescerà dalla Mapu (la terra) la nostra forza per vincere il Terricidio. I mentori della morte, i governanti del mondo non vogliono che il “vivere bene” sia un diritto, indipendentemente dalla loro bandiera, dalla loro lingua ufficiale, dal loro marchio, dalle loro grandi compagnie. I terricidi sanno solo uccidere.
Nonostante il fatto che sembri che oggi abbiamo mani e piedi legati, che non possiamo decidere perché la situazione è confusa, imprevedibile e minacciosa, mi rifiuto di lasciare che le persone siano ridotte a tale degradante partecipazione all’autodifesa e alla sicurezza sanitaria per garantire la vita. Rivendico il diritto di proporre misure che siano solidali, condivise, pragmatiche, applicabili, rispettose e non meno preventive di quelle imposte, perché noi mettiamo in esse amore e rispetto. Con la resilienza, le popolazioni indigene, con una vasta esperienza nel superare epidemie, genocidi, epistemicidi e tutti i tentativi di sterminio, possono essere fondamentali nell’elaborazione di un dispositivo di protezione delle comunità e allo stesso tempo di uno sviluppo sociale ed economico sostenuto dalla nostra spiritualità, dalla reciprocità, dall’armonia e dalla conoscenza dei nostri territori. Le misure omologate e univoche sono assurde e oppressive, e non possono essere più essere sostenute.
La realtà delle mega metropoli non sono affatto simili a quelle dei territori indigeni, esigiamo una nostra piena partecipazione e consultazione per mitigare gli effetti di questa quarantena, costituendo assemblee locali per la partecipazione territoriale ispirate al “buon vivere” dei popoli. Certo, la quarantena è necessaria, ma quello scelto non è il modello applicabile e, se gli stati-nazione si rifiutano, iniziamo a costruirla noi, perché la saggezza non nidifica nei funzionari di turno né nelle corporazioni capitaliste, razziste, patriarcali e speciste, ma nella terra, la “Mapu”, la “Pacha” (la madre). In fin dei conti siamo tutti i popoli del mondo, tutti gli esseri sul pianeta e le forze che lo abitano un’unica identità terrestre. Ecco perché il terricidio deve cessare, e dobbiamo superare la nostra paura e aver fiducia nel fatto che non siamo soli in questo compito, perché la terra è la nostra principale alleata.
In questi giorni, mentre camminavo nel mio mapu, ho trovato tra i pini un pioppo orgoglioso, ho osservato come innaffiava il terreno di foglie gialle, e come, spogliandosi, mostrava la sua vera struttura, i suoi rami multiformi, alcuni corti, altri lunghi, armoniosi e alti, fino a toccare il cielo. I più grandi e robusti quasi a toccare il terreno. Anche il nostro autunno personale è arrivato, e io voglio sapere di che legno siamo fatti, senza abbellimenti che possano distrarre, senza i falsi colori, spogliandoci della vanità. Sento la fermezza delle mie radici e l’antica saggezza che mi nutre. Sento che la fine di Wingkalandia (del mondo imposto dai colonizzatori bianchi) è vicina.
I Popoli del mondo devono unirsi contro il terricidio e soprattutto, noi popoli e nazionalità indigene, dobbiamo costruire autogoverni territoriali. Ho ascoltato le parole del Presidente, ha detto che governano per tutto il popolo argentino. Ma non ha fatto cenno all’intenzione di governare per la plurinazionalità che abita questo paese. Forse questa è la vera rivoluzione, autogoverno dei popoli per il “Buon vivere” in una terra sana, non ammalata. Concludo con una parola che ho imparato dalle persone della mia famiglia ancestrale, “yerpun” (attraversare la notte). Il mattino luminoso arriverà quando vinceremo definitivamente la pandemia più letale che continuano da secoli a inocularci: quella della paura. Senza paura guariremo davvero.
...ho trovato tra i pini un pioppo orgoglioso, ho osservato come innaffiava il terreno di foglie gialle, e come, spogliandosi, mostrava la sua vera struttura, i suoi rami multiformi, alcuni corti, altri lunghi, armoniosi e alti, fino a toccare il cielo. |
di Moira Millan
I Mapuche
Le origini. Mapuche nel linguaggio originario, il mapudungun, significa “il popolo della Terra”. Il termine è composto dalle parole Che, “Popolo”, e Mapu, “della Terra”. Sono un popolo amerindo originario del Cile centrale e meridionale e del sud dell’Argentina. Regno di Araucanía e Patagonia, ma i Mapuche hanno sempre rifiutato il termine Araucano considerandolo dispregiativo e creato dal nemico colonialista. La loro influenza si estende tra il fiume Aconcagua e la pampa Argentina.
Si dividevano in differenti gruppi a seconda del territorio che occupavano.
I Picunche (gente del nord). Integrata all’Impero Inca.
I Mapuche propriamente tali. Altre fonti li indicano con il nome di Moluche o Ngoluche (gente dell’ovest). Gli Uigliche (gente del sud). Ubicati tra il fiume Toltén ed il canale di Chacao.
I Cuncos. Nord ed est dell’isola di Chiloé, e molto somiglianti agli huilliche.
La storia. Durante i secoli XVII e XVIII iniziò un processo di espansione che portò i Mapuche a mescolarsi con popolazioni vicine ubicate ad est delle Ande (territori corrispondenti all’attuale Argentina), tra queste: i Pogia (Inclusi i buriloche), i Peuence (in Mapundungún: Gente del pehuén) .
Tra la fine del secolo XVIII e l’anno 1875, ci fu un ulteriore processo di espansione Mapuche sempre nei territori corrispondenti all’attuale Argentina.
I Mapuche resistettero con successo a molti tentativi dell’Impero Inca tesi di assoggettarli. Combatterono contro i conquistadores e riuscirono a resistere dal 1500 al 1800.
L'economia dei discendenti Mapuche si basa prevalentemente sull'agricoltura attraverso cui mantengono le proprie tradizioni. Attualmente un numero considerevole si è trasferito nelle città in cerca di lavoro e migliori opportunità economiche.
La maggioranza dei Mapuche ha dato vita ad associazioni e movimenti per l’affermazione e la protezione delle loro culture e per il riconoscimento dei loro diritti territoriali.
La popolazione. Le autorità governative stimano che la popolazione sia composta da 1.700.000 persone in Cile e di 300.000 persone in Argentina. Ma per i leader, la popolazione Mapuche conta non meno di 4 milioni di persone. La resistenza di questo popolo in difesa delle proprie radici, contro l’espropriazione dei territori comunitari, per il recupero dei territori ancestrali continua. Soprattutto quella contro le multinazionali (tra cui la Benetton).
La lingua Mapuche è parlata in Cile, parte in Argentina: non possedendo la scrittura, hanno una cultura esclusivamente orale.
La religione, di carattere naturalista e panteista, si fonda principalmente sul rispetto della Madre Terra, sul culto degli spiriti che richiamano elementi o forze della natuta (Pillan è il dio del fuoco, Antù è il sole, Kuyen la luna ecc.).
La musica è molto sviluppata e viene utilizzata per cerimonie religiose, per composizioni d’amore e per ringraziare la terra.