Personaggi. Un ricordo dell'amico e compagno Luis Sepúlveda
Chi va via in primavera naviga controcorrente: «Ninetta mia crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio. Ninetta bella dritto all’inferno avrei preferito andarci in inverno».
Persino Ade, signore degli inferi, fu costretto dalla forza della rinascita a permettere che Proserpina ritornasse annualmente dal letargo invernale per ubriacarci di fiori, odori, colori, malinconie, pene e allegrie. Pur se affezionati ai miti, Neruda spiega la rivincita della natura diversamente: «Potranno recidere tutti i fiori, ma non riusciranno a impedire il ritorno della primavera». Resta che, nel laico Olimpo dei poeti, Pablo gli avrà spiegato che i migliori vanno via in quel periodo (Neruda il 23 settembre 1973, nel marzo dell’emisfero nord), per godersi dalla montagna più alta della Grecia lo spettacolo nato dallo scontro titanico fra nuvole e vento che disegna sulle teste di uomini e donne, dee e dei, mucche e stambecchi, grilli e cicale, bimbi e bimbe… una serie interminabile di occhiali, granchi, orologi da tasca, carri alati e mille altre immagini. Come accadde a ogni vittima, esuli e immigrati poveri ci domandiamo a chi dobbiamo la nostra sopravvivenza. Non conosco una risposta convincente. Presumo che Lucho non abbia avuto tentazioni di quel tipo. Anzitutto perché Pelusa lo legava fermamente alla sua pariglia. Poi, perché da non fanatico materialista, sentiva che tocca alla vita fare questo sporco mestiere e il tempo a nostra disposizione va vissuto fino in fondo, senza risparmiarsi, da centravanti di sfondamento come sognava essere da bambino. «Ci sono vite che capitano e vite da capitano» è scritto su un muro alla metropolitana di Bonola, a Milano. Da capitano curioso, con l’impudicizia di un bambino, Luis chiedeva al malcapitato interlocutore e a se stesso tutto e di tutto. Può apparire strano, ma domandarsi e domandare è meno usuale di quel che sembra. Il mondo è in se stesso una risposta complessa che anticipa domande che non abbiamo ancora fatto e/o, persino, che non si possono fare. Quello “naturale”, o cosmo, prima di metterci davanti a enigmi, come le stelle, ci regala la luce del sole, la risposta atmosferica che ci permette di vivere senza farci troppe domande. Quello sociale è una rete di risposte articolate dove mettiamo piede ogni mattina ben sapendo come vestirci, come salutare, a chi rispettare e, ancora più importante, da dove otteniamo i nostri mezzi di sussistenza. Con i suoi tanti dubbi e le sue poche certezze Lucho attraversò gli anni '80 percorrendo deserti e praterie dell’America latina. Erano gli anni in cui Michel Camdessus, direttore del FMI e futuro consigliere di Giovanni Paolo II, spiegava a un gruppo di neoassunti: «Voi siete i preti del capitalismo. Bisogna che persuadiate tutti i Paesi che, se fanno quel che diciamo loro di fare, tutto andrà bene. (…) Abbiate sempre con voi questi statuti del FMI. Rileggeteli spesso. La rivelazione di Dio è contenuta in queste sei ragioni del Fondo così come sono scritte qui. La nostra responsabilità è fare un mondo migliore». Disse Brecht: «Ci sono molti modi di uccidere. Si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, togliergli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra ecc. Solo pochi di questi modi sono proibiti nel nostro Stato». Diceva Luis: «Una visione irrazionale della scienza e del progresso si fa carico di legittimare crimini a tal punto da far sembrare che la sola eredità del genere umano sia la follia. Cerca d’innalzare il discorso dello stolto che brucia la propria casa per riscaldarsi alla categoria di nuova etica. Il motto di questi curiosi filosofi della distruzione è “Disprezzo ciò che ignoro”». «Dio è il silenzio dell’universo, e l’essere umano il grido che dà un senso a tale silenzio» recita un aforisma di José Saramago. Forse, l’accento mistico si spiega con una sentenza di Ernst Bloch: «Il meglio della religione è che crea eretici» (Ateismo nel Cristianesimo. Per una religione dell’Esodo e del Regno, 1968).
A modo loro, Saramago, Bloch e Sepúlveda ci hanno insegnato che la storia degli uomini è la storia dei loro incontri e dis-incontri, nella Lisbona del fado, nella Patagonia dei pinguini, nell’inseguire la speranza; tra i vecchi che leggono storie d’amore e le mogli di dottori che ricuperano la vista per prime in un mondo di ciechi; tra le rose del deserto di Atacama che si travestono da pietre per proteggersi e gatti gentili che insegnano a volare alle gabbianelle.
Luis ha fatto e vissuto la strada da cantastorie di sogni e realtà, vita e morte, ricordi presenti e futuro atteso, luogo complesso dove ognuno può scegliere il senso del proprio deambulare.
Ha scelto fin da piccolo di camminare con gli ultimi, dando sostanza all’augurio fatto dal Che nella lettera di saluto ai suoi figli: «Siate sempre capaci di sentire nel più profondo del vostro cuore qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo».
Alla morte di Pablo Neruda, aveva scritto: «Pablo nostro che sei nel tuo Cile, vento nel vento, cosmica voce di chiocciola antica. Noi ti diciamo grazie della tenerezza che ci hai dato, delle rondini che volano coi tuoi versi, da barca a barca, da ramo a ramo, da silenzio a silenzio. L’amore degli uomini ripete i tuoi poemi. In ogni cella di America un ragazzo ricorda i tuoi poemi. Pablo nostro che sei nel tuo Cile. Grazie, della tenerezza che ci hai dato». Una preghiera laica che con la superiore sintesi della poesia dice quanto avrei voluto dire al fraterno amico e compagno Luis Sepúlveda.
Luis ha fatto e vissuto la strada da cantastorie di sogni e realtà, vita e morte, ricordi presenti e futuro atteso, uogo complesso dove ognuno può scegliere il senso del proprio deambulare |
di Rodrigo Andrea Rivas