Carceri. La disputa accesa sulle scarcerazioni a seguito del Covid-19
Il problema delle carceri secondo Giovanni Maria Flick e Salvatore Lupo non sono i 376 personaggi di cui si sta parlando sconsideratamente, ma è il sovraffollamento al quale nessun governo ha fatto fronte. Nonostante gli 8.000 scarcerati da inizio pandemia (a Febbraio i detenuti erano circa 61.00), le carceri continuano a essere sovraffollate: 53.000 circa le presenze a fronte dei 47.000 posti; 159 i detenuti e 245 gli agenti penitenziari positivi al Covid-19 (dati del Garante delle persone private della libertà personale il primo maggio). Per affrontare realmente questo problema, la classe politica dovrebbe prendere decisioni importanti e impegnative sulla prevenzione al crimine, piuttosto che sulla repressione.
Per riportare l’attenzione sui carcerati comuni (non coinvolti in associazioni criminali), che sono circa il 90%, abbiamo interpellato personalmente Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia
Qual è la situazione delle carceri in questo momento e quali sono le urgenze per la fase due?
Non entro nel merito della situazione sanitaria, ma voglio parlare del deserto che sono diventate le carceri, dal momento in cui sono stati interrotti i colloqui con i famigliari ed è stato impedito l’ingresso ai volontari. Nel momento dell’emergenza forse era inevitabile, ma questa chiusura non può andare avanti all’infinito. Quello che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, di cui sono presidente, chiede è di riattivare gradualmente i colloqui, usando le aree verdi, le prenotazioni, allargando gli orari per permettere di distanziare le persone, costruendo strutture prefabbricate per l’attesa, oggi del tutto inadeguate. E per il volontariato chiediamo di tornare a entrare, ovviamente attrezzati con dispositivi di protezione, per riavviare quei percorsi di “rieducazione” che permettono alle persone detenute di vedere un po’ di luce nel loro futuro.
Quali sono le scelte utili da suggerire nella fase 2?
Non deve succedere che le tecnologie, utilizzate finalmente per le videochiamate dei famigliari, risultate utili per frenare la rabbia tra i detenuti che rischiava di diffondersi e inquinare condizioni di vita già difficili, vengano tolte al ritorno alla normalità, ripristinando solo i colloqui visivi. Non deve succedere, perché anche in condizioni “normali” i rapporti con le famiglie, le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono veramente una miseria, e ci sono persone detenute che non possono neppure fare i colloqui visivi perché hanno parenti anziani e malati, o troppo lontani. Questa tragedia del virus ha messo in luce che i figli, i genitori, i famigliari dei detenuti hanno bisogno di un rapporto più stabile con i loro cari, le tecnologie ci devono aiutare ad arricchire le relazioni umane di chi sconta la pena.
Perché lo Stato di diritto per Caino è una garanzia per l’intera società e anche per quegli “onesti” che spesso si lanciano con accanimento contro i criminali, anche per una comprensibile difesa delle vittime dei loro crimini? E che dire del livore di alcuni esponenti politici della destra che dichiarano esplicitamente che certi criminali “dovrebbero marcire in carcere”…?
Il concetto di “marcire in galera fino all’ultimo giorno” è paradossalmente quello che ci rende meno sicuri: perché se una persona si fa una carcerazione “cattiva” comincia a sentirsi una vittima, e poi quando uscirà sarà incapace di reinserirsi in una società, che non mostra di volerla accogliere. La Costituzione dice che le pene “devono tendere alla rieducazione”, è un concetto fondamentale: se il “delinquente” viene trattato da persona, è stimolato a cambiare, se viene trattato come una bestia si comporterà come tale.
Quanto alle vittime, noi volontari siamo ben consapevoli che non si può mai dimenticare la loro sofferenza, e per questo costruiamo spesso nelle carceri dei percorsi, dove le persone detenute possano incontrare delle vittime, non le loro vittime dirette, perché questo richiede complessi percorsi di mediazione, ma vittime di reati analoghi: questi incontri fanno bene ai detenuti, perché si rendono conto fino in fondo della devastazione provocata dai reati, e fanno bene alle vittime, perché vedere che gli autori di reato sono comunque persone, riconoscere la loro umanità, sapere che si sono assunti la responsabilità di quello che hanno fatto disinnesca l’odio, che è un sentimento che fa vivere male prima di tutto chi lo prova, e contamina tutti quelli che ha vicino.
A proposito delle scarcerazioni di noti mafiosi di cui alcuni condannati al 41 bis: come si può tenere insieme il diritto alla salute dei detenuti e la necessità della certezza della pena? C’è un rischio che alcuni capimafia potrebbero condizionare le decisioni dei magistrati?
Da giornalista dico che quello che viene raccontato dei capimafia scarcerati sono mezze verità, più pericolose di una menzogna. Tra l’altro, non c’è nessuna misura, fra quelle legate all’epidemia da coronavirus, che possa essere applicata in qualche modo alle persone in carcere per reati della criminalità organizzata. Guardiamo il caso che ha creato più scandalo, quello di Francesco Bonura, un esponente di spicco della mafia. Prima di tutto pochi hanno detto che questa persona era nel regime del 41-bis, è vero, e però gli mancano, per finire di scontare la pena, circa nove mesi. Ma davvero siamo messi così male, da vivere in uno Stato che ha paura di un uomo di 78 anni, con un tumore grave, cardiopatico, con ancora da scontare pochi mesi di carcere? Una magistrata ha rispettato la legge e mandato quest’uomo in detenzione domiciliare, usando gli strumenti che la legge le dava, perché semplicemente il diritto alla salute vale per tutti, anche per i criminali. Dove ci sono state delle scarcerazioni, di qualche disperato con pesanti patologie, perché comunque anche un mafioso con un tumore gravissimo è un disperato, si è trattato di tutelare il diritto alla salute come vuole la nostra Costituzione. Ed è uno Stato forte quello che sa prendersi cura della salute di TUTTI, anche dei mafiosi.
Io poi non credo affatto che i capimafia potrebbero condizionare in qualche modo le decisioni dei magistrati di Sorveglianza, che sanno benissimo tenere nella giusta considerazione sia le esigenze di sicurezza della collettività che il diritto alla salute delle persone condannate.
di Daniela Mariotti