Scuola. Ricette, telescopi e parole: Quando le parole trasformano le cose. Ma quando le cose trasformano le parole?
Ricette, telescopi e parole
Mamma, stai cucinando il riso secco peruano!” Così Machi, ai fornelli di casa dopo sei mesi trascorsi in Perù. Tornata (mai del tutto), insieme ad altri ragazzi come lei, nelle strade deserte delle nostre città (e delle nostre anime) CHIUSE già da tempo, prima del lockdown.
Sì, capita spesso - non soltanto in cucina - di sperimentare qualcosa e scoprire che esiste già. Magari con un altro nome. Penso al principe Federico Cesi quando nel 1611 chiamò telescopio (guardo lontano) l’invenzione più comunemente nota come cannocchiale (cannone-tubo + occhiale).
Il nome resta attaccato a quella cosa e ne modifica anche il sapore: riso secco o riso mamma suona diverso no? Eppure, potrà trasformarsi in qualcos’altro soltanto se un luminare della scienza o un principe, magari venuto da lontano, pubblicherà un nuovo nome.
E quella cosa sarà quello che già era. Con un nome diverso.
Saremo fortunati se quel nome esprimerà una ricerca del Bello e del Vero sull’oggetto in questione. Allora, quella Parola nuova, guarderà lontano (telescopeo) e sarà creatrice, come all’inizio di tutto: sarà logos.
Tuttavia, tornando nei meandri della quotidianità, un evidente Pomarancio o Nero Alberti resteranno un Avanzino Nucci o un Sangallo fino all’arrivo di un centurione di un qualche capoluogo - meglio se anglosassone - che pubblichi il nome nuovo. Allo stesso modo, un riso ben cotto e profumato di spezie sarà un riso secco: orribile alle orecchie di chi lo associ all’indifferenziato (umido-secco) o all’arsura della stagione o a bimbi nodosi come alberi.
Se state pensando di aver trovato una rubrica di cucina in questa rivista e state per voltare pagina...Forse fate bene. L’ho presa troppo larga come mi ricordano figli e studenti.
Tuttavia, ricette e parole sono il cuore della riflessione che vorrei condividere.
Premesso che le Parole possono trasformare la Sostanza delle cose e possano ancor oggi Creare, distruggere e falsificare, vorrei osservare con voi quanto sta avvenendo, di nuovo, nel mondo della scuola.
Abbiamo già visto che troppo spesso, in questi ultimi mesi, seguendo una moda che si è consolidata negli anni, parole sfuggite di testa, anzi soltanto di bocca, a chi guida la Cosa Pubblica, siano diventate ordinanza ministeriale e poi decreti. Legge.
Una legge costruita su parole che spesso hanno soltanto cambiato il nome alle cose, senza mai arrivare a riflettere sulla sostanza. Gli sforzi acrobatici di sintetizzare in virtuosistici acronimi (PIA, PAI uniti ai già noti PEI, PDP...) strategie complesse già in atto da anni grazie al buon senso e ai percorsi formativi individuali dei singoli docenti, esprimono semplicemente l’incapacità del sistema di assumersi le responsabilità di quelle parole, uscite di bocca e divenute prima spettacolo, poi ordinanza, poi legge.
Cambiano le parole, cambiano le ricette, ma la sostanza è sempre quella: gli ingredienti sono scarsi e il prodotto finale non è chiaro. Manca quel Sogno di cui abbiamo già parlato.
Per questo, proprio come si farebbe in una cena tra amici, si fa del proprio meglio per aggiungere un tocco in più alla ricetta (centinaia di tablets per le scuole), si torna a rovistare tra gli ingredienti tradizionali (giudizi sintetici alle elementari), si cerca il modo di SOPRAVVIVERE per un anno scolastico, per poi essere sommersi da rifiuti non recuperabili (mascherine e guanti monouso, pareti di plexiglass nelle scuole). Senza sapere come sarà alla fine quello che porterai in tavola.
Si sente dire, in altisonanti parole, che questo, in sostanza, è quello che passa il convento. Mi pare chiaro che lo stanziamento di un miliardo e mezzo sia solo la metà dei tre miliardi richiesti dal precedente ministro, ma credo che sia un buon punto per cominciare a sporcarsi le mani, mettersi in gioco. Ma con un’idea chiara, completa, che guardi ai modelli scolastici che funzionano (penso alla Svezia, all’Australia), che affondi le radici su quanto i pedagogisti da millenni ci suggeriscono, da Socrate a Montesquieu a Vygotsky a Maria Montessori, che a Villa Montesca, nel 1909, iniziava il primo corso di pedagogia scientifica.
È un patrimonio che non possiamo perdere.
Da quando ho iniziato a insegnare, nel 2005, ho visto succedersi ministri dell’istruzione che hanno ogni volta attaccato parole a strategie di insegnamento che dagli anni ‘90 (èra Berlinguer) in avanti sono state recepite, assimilate e sperimentate da molte comunità educanti: porre al centro del processo educativo il ragazzo, condurlo per mano come un ped-agogo (Pais - ago - conduco il fanciullo) per poi lasciarlo camminare da solo attraverso il suo personale cammino verso un saper essere e percorribile solo quando il sapere passa attraverso l’immaginazione e la competenza (saper fare). La realizzazione della leggenda personale del ragazzo, tuttavia, non può avvenire in pagine di fogli da riempire a crocette, ma può avvenire solo in uno Spazio che sia educativo, quindi accogliente, vivibile, Bello. Per questo ci vuole sempre quel Sogno.
Il Sogno di amministrazioni che qui, ora, con poteri commissariali, possano avere l’occasione di confrontarsi con il territorio e ristrutturare gli edifici scolastici, sistemare e rendere sicure e fruibili le aree verdi circostanti, gestire e regolamentare (meglio eliminare) il traffico attorno a queste aree, riorganizzare le biblioteche scolastiche come luoghi aperti e collegarle a quelle comunali e museali, così, creare degli “AAI”...Ambienti di Apprendimento Innovativi.
Tuttavia, se per realizzare AAI saranno usati ingredienti scadenti o mal dosati… permettetemi... quel telescopio resterà un cannocchiale gigante e quel riso profumato soltanto riso secco.
Di Sara Borsi