Libri. Lezioni sulla Modernità
Il commento, che Baldassarre Caporali ha dedicato al mio libro (Lezioni sulla modernità, 2019) sull’ultimo numero dell’«Altrapagina», mi ha convinto che, quando pensatori diversi sono chiamati a confrontarsi su un determinato complesso argomento, sono destinati a non capirsi. Confrontandosi sul tema della Modernità, dovrebbero esprimere valutazioni convergenti per una supposta vicinanza politico-culturale, ma, utilizzando approcci filosofici e un lessico derivanti da scuole di pensiero lontane tra di loro, si ritrovano dolorosamente su sponde divaricate, irretiti in giudizi che marcano rotture apparentemente irrecuperabili. Le accuse di illuminismo, storicismo e (addirittura) idealismo che il Caporali ha rivolto al mio lavoro sulla Modernità dipendono, in effetti, dal modo opposto con cui noi facciamo filosofia e critica sociale. Quando afferma che la mia indagine sulla Modernità non riesce a cogliere l’enigmaticità e la traumaticità di quella categoria sociale, non si rende conto che è il suo particolare schema interpretativo a impedirgli di intendere il mio punto di vista. Più chiaramente: nel mio modo di pensare, un fenomeno sociologico complesso può essere compreso solo se si prova a stare dentro il travaglio dei fatti storici.
La riduzione fenomenologica solo apparentemente rende possibile un rapporto privilegiato con lo stesso insieme; in realtà, la sospensione del giudizio è una finzione intellettuale ed è falsa nel suo fondamento ontologico, perché si basa su un presupposto assurdo e improponibile se solo si accetta quanto, almeno suggerito, dalla fisica contemporanea sulla genealogia e sulla dinamica degli enti. Anche per me lo storicismo è una polpetta filosofica avvelenata, nell’accezione teorica transitata nell’idealismo hegeliano e nel marxismo delle accademie. È impossibile accettare il veleno concettuale irrorato dallo storicismo di scuola per il quale il processo storico e culturale coincide con l’idea di progresso. Se per storicismo si intende la visione filosofica per la quale il contenuto della storia è il risultato dell’indomita dialettica soggetto-oggetto, allora credo che sia impossibile non dirsi storicisti e hic manebimus optime. Il mio rapporto culturale con l’Illuminismo è da tempo disincantato e registra una sincera propensione per l’ultimo Diderot. La mia emancipazione culturale dalla maschera politica dentro la quale si è celata a lungo la vera anima dell’Illuminismo, quale modello politico-sociale che ha ispirato nella lunga tendenza la Modernità degli interessi e la riorganizzazione economico-mercantile operata dal Capitalismo in Occidente, precede la lettura della Dialettica dell’illuminismo, con la quale Horkheimer e Adorno hanno avviato un’interpretazione del fenomeno illuministico destinata a svelarne la segreta anima mefistofelica.
Altrettanto incomprensibile è la critica di “idealismo filosofico” che Caporali rivolge al filo conduttore teoretico che tiene assieme il mio lavoro (non ho fatto a tempo a inserire una riflessione sulla pandemia da Coronavirus quale possibile effetto della Globalizzazione e della Modernità assassina). Forse in questo caso si tratta di un equivoco o di una mancata comprensione (o non accettazione?) della teoria filosofica che accompagna ormai da anni le mie ricerche, che ho chiamato materialismo debole. Con essa ho provato a dimostrare che lo studio del prisma della Modernità nella storia-mondo trova un giovamento formidabile se il materialismo storico dispiega la sua efficace funzione critica, riconciliato definitivamente con il principio di indeterminazione applicato alla materia sociale. In quest’ottica l’idealismo e il materialismo della tradizione, dopo secoli di cruente, reciproche battaglie, scoprono il limite della loro fondazione perché la riflessione filosofica e la critica sociale, aggiornate nell’ottica debole, superano l’opposizione soggetto-oggetto e accettano per valide il consistere contestuale, dinamico, in costante tensione delle sue polarità.
Il citato approccio filosofico ai fenomeni sociali ha permesso di orientarmi dentro il grumo problematico di eventi che nella storia degli ultimi secoli ha visto divaricarsi la Modernità degli interessi, identificantesi nel modello sociale e politico-economico capitalistico, e la Modernità dei valori, presente e quasi sempre sconfitta, nei tornanti più innovativi della storia degli ultimi tre secoli. Mi sono avvicinato al filone “antimoderno” con animo partecipe e sensibile, specie nelle arti, da Tommaso Moro a P.P. Pasolini, scoprendo che spesso per essere veramente moderni si deve essere antimoderni e così provare a combattere l’omologazione culturale, l’assuefazione, il fatalismo a cui abitua la “servitù volontaria” di chi vive quieto nella subalternità. Dispiace, dunque, constatare che ormai da Baldassarre Caporali mi separa un abisso; per me, tuttavia, proprio perché le critiche sono venute da un intellettuale di alto livello, le sue osservazioni mi spingono a ricercare ancora, a scoprire varchi nuovi, a non accontentarmi delle conoscenze acquisite.
Di Venanzio Nocchi