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Da Urbino a Perugia

Raffaello l'incanto della bellezza

da urbino a perugia1Il padre, Giovanni Santi, era stato nominato da Guidubaldo pittore e scenografo di corte: dirigeva gli spettacoli e li allestiva nelle più imponenti celebrazioni che si svolgevano a Urbino, nel Palazzo e nella città. Le sue Cronache rimate sono una delle prime espressioni di critica d’arte. La sua opera è stata rivalutata nel tempo e ha contato nella formazione di Raffaello come quella di Timoteo Viti, Gerolamo Genga, del grandissimo Bramante e di tutti gli artisti della cerchia urbinate. Urbino è la città dei Duchi in cui si forma Raffaello. In quell’ambiente impara a tracciare i primi disegni, immagina le sfumature impalpabili dei cieli, sperimenta la mescolanza dei pigmenti con gli oli di lino e papavero, si esercita nella cura dei dettagli che osserva nei fiamminghi, pittori che Federico negli anni ’70 aveva accolto a Palazzo, è attratto dalla dignità della figura umana che Piero colloca nello spazio. Il giovane era affascinato dalla luce e dai volumi di Piero, dalla sua passione per la costruzione matematica dello spazio, dalla grazia delle figure di Timoteo Viti, dai preziosi disegni di Gerolamo Genga, dalla limpidezza delle architetture e delle decorazioni del Palazzo, la prima reggia del Rinascimento, dove il Laurana voleva catturare la luce e diffonderla come una gemma nello spazio inventato.

Questa scuola gli consente di conquistare, appena diciassettenne, il mondo di Città di Castello e di Perugia, l’Umbria tutta, e poi la raffinata Firenze e la sontuosa Roma alla corte di Giulio e di Leone, dove, con Bramante e Michelangelo, era il gotha della cultura italiana: umanisti, architetti, teologi, maestri dell’arte pittorica e della scultura. A Città di Castello il ragazzo, insieme al maestro di Piandimileto, è accolto come figlio di Giovanni e viene subito impegnato in imprese artistiche. Baronci, personaggio influente, già priore della città, non ha dubbi nell’affidare proprio a lui, al ragazzo di Urbino, una committenza importante: la Pala di San Nicola da Tolentino, per la chiesa di Sant’Agostino. Nel contratto il Baronci lo chiama già “maestro” nel vero spirito del motto: “largo ai giovani” che contribuì a rendere straordinaria quella civiltà. Proprio come accade oggi! Dopo questa prima opera, le famiglie più insigni, più facoltose di Castello e Perugia si mossero a gara, con generosità, quella che nasce da un senso alto del prestigio sociale, per commissionare al giovane Raffaello opere decisive per la sua crescita e favorire il suo decollo a Firenze e poi a Roma. I Gavari, gli Oddi, i Baglioni, gli Albizzini circondano il ragazzo di attenzioni, fanno di Raffaello il loro pupillo ed egli li ricambia mettendo in luce le sue capacità straordinarie.

da urbino a perugia2Cinque anni Raffaello abitò a Città di Castello e da lì, in un pomeriggio, a cavallo arrivava a Perugia. Fu nella bottega del Perugino, il suo maestro di quegli anni cruciali per la sua formazione, che assorbì tutto il meglio della cultura pittorica umbra, la grazia e l’armonia delle figure, la ricchezza dei panneggi, la lucentezza dei colori, la delicatezza dei paesaggi. È da quella permanenza nell’Italia centrale che derivarono a Raffaello la conoscenza del Signorelli e, a Siena, la collaborazione con il Pinturicchio, ma il giovane pittore riuscì, in quegli anni, anche a mettere pienamente a frutto le lezioni apprese nella bottega del padre e iniziò a stupire. Gli Albizzini di Città di Castello vollero commissionare a Raffaello un quadro con lo stesso soggetto, l’identica impostazione di quello realizzato dal Perugino qualche anno prima: un tempio sullo sfondo, al centro di un ampio spazio prospettico, e le figure che partecipano dell’evento, spostate in primo piano. La famiglia Gavari commissionò una Crocifissione (la cosiddetta Crocifissione Mond) per la cappella di San Girolamo nella Chiesa di San Domenico. Raffaello era già così padrone del disegno da tracciare i segni direttamente sulla tavola, senza tentennamenti. Risultato: perfezione e purezza del disegno sulla tavola pazientemente predisposta e resa adeguatamente liscia e opaca. Guardate la ricchezza delle stoffe e dei colori: le mille sfumature di rosa della preziosa veste della Maddalena, l’eleganza della veste di San Girolamo, il gioco cangiante dei grigi con la luce che si insinua tra la sinuosità del panneggio e la sciarpa rossa, a contrasto, che si annoda sui fianchi e sullo sfondo, l’azzurrite, le velature di lapislazzuli che, come è stato osservato, dal verde cangiante delle colline consentono all’azzurro del cielo di perdersi nell’infinito orizzonte pacificato. Un paesaggio che prelude già, nella sua dolcezza alla pace della resurrezione. E gli angeli (retaggio del padre Giovanni), gli angeli ballano, sospesi in un passo di danza sulle nuvolette. E volteggiano anche i nastri delle loro vesti come sollevati in cielo da una brezza capricciosa. Tutto danza in cielo in un crepuscolo sereno appena accennato. Presto alla luna nera subentrerà il sole: i suoi raggi sono resi splendenti dall’uso della foglia d’oro come in una gemma. La tragedia della morte, sublimata dalla posa meditativa delle figure, si appresta a divenire un evento festoso, felice: la vita sta per trionfare di nuovo e per sempre.

Nel 1507 realizza (è a Firenze) per la famiglia Baglioni di Perugia la pala della Deposizione. Guardate i personaggi in secondo piano: scalzi i loro piedi si muovono nell’aria in coro, come sospinti per la pietà in circolo verso il corpo di Cristo, in un ballo di passi lievi, rispetto a quelli in primo piano, impegnati a deporre il corpo pesante, materico, terreno del Cristo morto. Guardate il giallo solare e brillante della veste di Giovanni d’Arimatea: taglia la tavola dall’alto in basso ed è talmente vivo da ammaliare l’occhio che lo ricerca lungo la linea verticale. È quel giallo strepitoso, come è stato scritto, che ci guida alla danza dei piedi del santo e di quelli della Maddalena, i lunghi capelli mossi nel gesto dell’ultima amorosa carezza. Sullo stesso piano la vergine e la bellissima pia donna che ne sostiene l’abbandono in un movimento di torsione del busto verso l’alto: proprio come la vergine nel Tondo Doni di Michelangelo (Argan, 1973). Il loro dolore e la concitazione della scena si stemperano nel movimento leggero e danzante dei piedi. Il bellissimo giovane su cui convergono i nostri sguardi, incredibile novità rispetto all’iconografia consueta della deposizione (Perugino, Mantegna), pare avesse le sembianze di Grifone, morto a seguito di un evento terribile accaduto a Perugia nell’estate del 1500. Ecco, li vedete i cittadini di Perugia che vengono avanti dolenti, e la madre Atalanta. Se è lui Grifone, morto assassinato, nelle “nozze di sangue”, allora Raffaello è riuscito qui, in quest’opera, a sottrarlo alla morte della colpa e a riportarlo alla vita con il gesto sacro che il giovane compie, in un tempo senza tempo: un gesto di infinita pietà verso il corpo esangue del Cristo nell’istante presente del nostro sguardo.

Di Nadia Pucci


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