Cronaca d'epoca
L’orologio di ‘piazza di sotto’ aveva appena avvertito che mancava un quarto al tocco, quel caldo giorno di Ferragosto di tanti anni fa, quando Cencio, un uomo non più giovane ma ancora ‘nuzzolo’, stava trotterellando con le sue gambette corte ma vivaci, verso casa, dalle parti di via Sant’Antonio, una via centralissima dove era allocato il prestigioso albergo Tiferno e, ancora prima, nel Natale 1907, vide la luce la prima sala cinematografica di Città di Castello. Si chiamava Cinema Galvani. Cencio indossava i ‘panni buoni’: pantaloni scuri come la giacca, tenuta aperta non solo per il caldo, ma per lo straripamento delle di lui fiancate; non mancava la cravatta di ordinanza: grigia su camicia bianca. Ai piedi le ‘scarpe bone’, quelle con lo ‘scricchio’: questo più o meno l’equipaggiamento di allora nei dì di festa. Strada facendo, a Cencio rimuginava nella testa che questa festa chiamata Ferragosto, dalle nostre parti era più conosciuta come il giorno dell’Assunzione e della festa a Canoscio, dove da giovane andava a piedi, assieme ad altri. A proposito dell’Assunzione gli tornò alla mente una preghiera che gli aveva insegnato la mamma quando era piccino. Si ricordava di quelle poche parole: «È assunta la Vergine Maria, ma in ogni cuore rimane e in ogni via…». Trotterellava svelto svelto per giungere a casa, dalle parti di via Sant’Antonio, con sotto il braccio un involto con mezzo cocomero e mezzo litro di vino rosso.
Per tanti anni Cencio aveva lavorato allo stabilimento tipografico di Scipione Lapi come compositore, ma una forma di artrite alle mani lo aveva costretto a licenziarsi. Militante socialista prima del fascismo, fu costretto a dimettersi anche dal partito, non per l’artrite, ma per un caso di coscienza, come lui sosteneva. Fu quando seppe che Mussolini era della sua stessa classe anagrafica, tutti e due nati il 29/07/1883. Cencio disse ai suoi ormai ex compagni che era sempre della stessa idea, ma questa coincidenza anagrafica, oltre che per lui imbarazzante era un problema serio, non poteva mettersi contro chi, quasi quasi, sentiva come un parente. Poi, in fin dei conti, anche lui (Mussolini ndr) era stato socialista ed era un brav’uomo che stava rimettendo l’ordine in Italia. Così parlò Cencio.
Giunto alla porta di casa, si asciugò il sudore e allentò la cravatta. A capo della scala di ripida pietra umida, la moglie Maddalena, da tutti chiamata sempre Nena, anche il giorno dell’Assunzione lo accolse un po’ scojonata: «Credéo che haei perso la strèda de chésa, è da mò che è sonèto ‘l tocco!». Cencio non rispose, si tolse le scarpe che gli facevano vedere le stelle per il dolore a un calcagno, “gni parve d’arvisolè”. La Nena buttò giù la pasta, erano fischioni. Cencio li guardò con mestizia e la moglie capì che la proposta culinaria non era gradita «È inutile che fè la griccia, si ‘n te va pù gì al Tiferno, mequé a dù passi». E tutti e due in silenzio cominciarono a mangiare i fischioni. Silenzio rotto dall’arrivo della gatta, anche lei in ritardo, chiamata da Cencio ‘Bilinciana’ dal nome di una signora della città, nota per i suoi costumi ‘sgualciti’. «Alé, amò semo tutti» commentò a mezza voce Cencio. La gatta saltò sul fornello di mattoni per poi fissare, come sanno fare solo i gatti, una panciuta pignatta di coccio contenente la seconda portata in tavola: “le robe de dentro”, in questo caso coratelle di agnello rimediate allo ‘scurtico’.
Qualcuno bussò ripetuti colpi al portone della casa dirimpettaia dove abitava una coppia di sposi, senza figli, ma con parenti che nelle ricorrenze di pregio immancabilmente, dalla Scarzola, venivano a pranzo dai cognati e mai a mani vuote, ma con il meglio dell’arte culinaria, soprattutto arrosti.
Intanto Cencio e la Nena avevano messo mano alla seconda portata, le coratelle, col disappunto della gatta, esclusa dal desco. «Chissà che arosto haran portèto ogi» disse la Nena dopo aver dato una sbirciata alla finestra dirimpettaia. «Sperèmo ‘n siano i piccioni come pe’ i Santi, sempre sti piccioni. ‘N odore troppo carico, me so stufèta». «È ragione Nena ma quel profumo del pollo de Natèle, solo arpensaci me fa venì l’acquolina ‘n bocca». «Cencio, l’agnello de Pasqua che t’ha fatto? Se sentia anche ‘l profumo del pilloto. Roba da fè arvisolè i morti!». Commenti interrotti dall’aprirsi della finestra dirimpettaia, da dove uscì un potente odore di oca arrosto, accompagnato da un raffinato profumo di patatine novelle a cui l’arrosto aveva dato il colore dell’oro antico. Un effluvio gradevole accarezzava quella cucina nella penombra, dove Cencio e la Nena erano intenti a disbrigare il secondo. Si effondeva e propagava lambendo le coratelle… A volte basta un profumo a evocare sopiti ricordi… Così parlò Cencio: «Te ricordi Nena quando ci se sposò a Canoscio? C’era stù profumo». «Sé ma anche l’oca!» Nena rispose, finendo con la ‘scarpetta’ la ripulitura del piatto. Cencio addentò il cocomero e sputò i semi. La Nena, finita la scarpetta iniziò lo zuppino di vino rosso, anche Cencio lo fece e allungò una mano sul tavolo, la Nena fece altrettanto, si accarezzarono le mani e si sorrisero.
La gatta, soddisfatta per aver ripulito a dovere la panciuta pignatta di coccio, si leccava i baffi come solo i gatti sanno fare. ◘