Satira ... ai tempi del coronavirus
Nel paese della trasparenza (liberamente tratto e reinterpretato dall'Apologo sull'onestà di Italo Calvino pubblicato ne "la Repubblica" il 15 marzo 1980
In un paese che si reggeva su un sistema articolato di poteri, era stato eletto Sindaco un esponente di un piccolo partito che, diversamente da quanto accadeva in tutta la nazione dove aveva lo 0,2 dei consensi, nella sua città raccoglieva più del 20% del voto degli elettori. Tutti si chiedevano quali virtù speciali avesse un primo cittadino così capace di risollevare in casa le sorti del suo gruppo, che altrove era quasi inesistente. Tra gli appartenenti alla categoria dei maggiorenti dunque avrebbe dovuto godere di grande considerazione, ma appena metteva il naso fuori dai confini del suo paese e della sua Regione, anche per lui scattava la legge dell’anonimato: non era più attraente.
Così rovistando tra le carte, le delibere, i regolamenti e gli atti della sua gestione, piano piano la nebbia cominciò a diradarsi e le cose, che prima sembravano oscure, cominciarono ad apparire più chiare. Innanzi tutto era molto stimato da una categoria particolare di persone, uomini potenti, che si vestivano in modo strano, indossavano guanti bianchi, cappucci neri e altri simboli, i quali si riunivano in segreto nonostante in quel paese si proclamasse la massima trasparenza. Dichiaravano di aggregarsi per principi filosofici e ideali, cose per le quali non era necessaria alcuna segretezza, visto che tante altre associazioni professavano gli stessi principi alla luce del sole. La cosa che li rendeva tuttavia visibili era la copertura di cariche importanti: si trovavano ovunque ci fossero posti di comando, di controllo del potere, nelle professioni liberali, ospedali, studi commerciali, imprenditori, ingegneri e così via, tanto che era difficile trovare tra loro qualche cittadino che svolgesse lavori umili. Inoltre la loro unione era sancita da un giuramento in base al quale la fedeltà tra fratelli era più importante di quella dichiarata alle istituzioni, come dire che la loro setta era più importante dello Stato. Il Sindaco di quella città non si vestiva come loro, né apparteneva a tale congrega, tuttavia professava una grande stima per quella associazione. Erano insomma suoi amici. Poi si scoprì che aveva tanti altri amici anche tra le associazioni del paese e che ognuna aveva stranamente come presidente un suo uomo, nel senso che apparteneva al suo partito. Tutti lo invitavano a manifestazioni, incontri, in modo che la gente lo sentisse vicino a se stessa, come se fosse uno di casa. I giornalisti gli andavano dietro come paparazzi di un secolo prima, filmando e immortalando le sue immagini pubbliche, tanto che il Comune sembrava essersi trasformato in un set cinematografico. Persino se andava in piazza a prendere un caffè con gli amici o si faceva fotografare con chiunque ne facesse richiesta, la notizia appariva nei giornali a caratteri cubitali in tutte le testate. Non disdegnava nemmeno una anziana signora che aveva superato il secolo di vita e a ogni compleanno si recava a casa della ultracentenaria per farsi immortalare dalla stampa fedele, a spegnere le candeline sulla torta per farsi un po’ di pubblicità a basso costo. Le inaugurazioni di opere pubbliche erano all’ordine del giorno. Era diventata una prassi così consueta quella di inaugurare, che la gente lo chiamava anche a casa propria quando rinnovava appartamenti e/o arredi, cucine, frigoriferi, negozi, condomini ecc. Tutto lo staff si mobilitava con nastri, forbici, flash mob e selfie. La notte, pare, si coricasse addirittura con le forbici in mano, per essere subito pronto la mattina successiva a qualche taglio di nastro a richiesta.
Così facendo aveva creato un clima di paese, di strapaese in cui la maggioranza si riconosceva nelle cose semplici, negli affetti più banali, un paese che voleva diventare città e invece si era trasformato in borgata di periferia. A tutto ciò contribuiva la crescita di sagre e feste popolari per far divertire il popolo, in modo che, mangiando, bevendo e divertendosi, si disinteressasse di ciò che avveniva nel palazzo e nei palazzi dei maggiorenti, dove agiva una pletora di personaggi che alle spalle del popolo curava i propri interessi. Il settore urbanistico era quello dove avvenivano gli scambi più lucrosi per gli imprenditori del mattone, che in quella città avevano costituito un vero patto tra costruttori ottenendo dal Comune quello che chiedevano, in cambio ricompensavano con i voti. L’urbanistica dunque era lo specchio fedele di uno scambio tra pubblico e privato nel quale spazi, aree e edifici venivano gentilmente ceduti a quel cartello di imprenditori e progettisti, mentre le mura cadevano, il cemento imprigionava la parte più antica della città, i privati iniziavano opere senza completarle, si costruivano palazzi che non venivano abitati, tutto appariva degradato. Chi faceva parte di questo sistema amicale era gradito al potere; chi lo rifiutava veniva automaticamente messo al bando. Ma la scelta aveva una sua logica, quella di poter controllare tutto e tutti, sia in alto che in basso, sviluppando una sub-cultura funzionale ai propri obiettivi.
Tutti lo tenevano in gran conto perché sapevano che in qualsiasi momento avessero avuto bisogno, lui sarebbe intervenuto in loro aiuto come si fa in una famiglia allargata: dai problemi del lavoro a quelli della salute, dalla piccola concessione al sussidio di supporto. In alto aveva costruito una fitta rete di rapporti con le persone più importanti della città e con i centri di potere più influenti. Ma alla fine venne in luce anche il segreto di quel successo che tanto segreto poi non era, perché si trattava solo di uno scambio immateriale in cui la merce era costituita da licenze, favori in cambio di diritti, nomine in Fondazioni, in enti canori, in partecipate che facevano tutti lo stesso mestiere: portare acqua al mulino di chi li manteneva in vita. Parlava alle persone umili e del popolo, ma stava con i ricchi e i potenti. Come alleato aveva un partito più grande del suo, pieno di voti ma vuoto di idee e di persone che potessero contrastarlo, il quale per omertà o per incapacità non riusciva a mettere argini allo strapotere del primo cittadino. Così lui poteva fare tutto ciò che voleva senza che il partito maggiore se ne accorgesse e lo richiamasse al rispetto delle regole.
Ovviamente tutto questo mercato veniva considerato lecito anche se lecito non era, ma la pratica era talmente in uso e coinvolgeva così tanti soggetti da farlo apparire se non proprio legale almeno condivisibile, come se essere in molti a compiere azioni ingiuste le rendesse per ciò stesso giuste. L’omertà, insomma, era il tratto saliente del suo modo di governare, e nessuno aveva il coraggio di ribellarsi perché poteva essere ricattato per i piaceri che aveva già ottenuto in precedenza. Ognuno quindi aveva una parte in quel paese, o esercitando la funzione assegnata o non esercitandola, e l’insieme di eccessi praticati e di controlli omessi consentiva al meccanismo di funzionare. Secondo Italo Calvino, quel paese avrebbe potuto definirsi felice, se «... non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire…»: gli irriducibili (ndr). Loro infatti facevano difficoltà a inserirsi negli ingranaggi di una macchina che funzionava all’incontrario, e finivano «per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è».
Di Iguain Terronio