Cronache d’epoca
Fatti e fatterelli spilluzzicati dai periodici che si stampavano a Città di Castello a cavallo degli ultimi due secoli passati. Scampoli di vita di tutti i giorni di un tempo ormai perso, che vanno “da ‘n greppo a ‘n foso”. Questo si potrebbe intitolare “Miseria senza nobiltà”. Siamo tutti d’accordo che la miseria non è un granché, almeno per chi con lei abita, ma per chi di riffe e di raffe (che più o meno vuol dire arraffare) è diventato ricco, la miseria è uno sconcio, non in quanto tale, ma per il modo di presentarsi, di apparire nuda e cruda. Che diamine, la gente ricca, quindi perbene, guarda anche alla forma! Sarà un settimanale che usciva a Città di Castello verso gli ultimissimi anni dell’‘800, “La libera parola”, di tradizione monarchica, a dar voce a questa indignazione. Si legge: «Lo sconcio che parecchi cittadini lamentano è quello di vedere a intermittenza, ora uno, ora un altro giorno della settimana, quei cinquanta o sessanta poveri d’ambo i sessi, luridi, nei loro cenci, miserevoli nel loro aspetto gramo, che aspettano per ore e ore in faccia al portone di qualche palazzo per ricevere dai proprietari filantropi l’obolo di uno o due centesimi». Certo, indossare cenci non è il massimo, cenci sicuramente anche fuori moda, ma il cronista ha avuto la delicatezza di non sottolinearlo. Quando si parla di aspetto gramo, forse intendevasi ‘asciutto’ perché, come è noto, da sempre i poveri hanno tenuto alla linea, sottoponendosi a diete ferree.
È l’agosto del 1904: «Novantacinque calzolai hanno sottoscritto una domanda al Sindaco perché sia revocata la disposizione che proibisce di lavorare fuori dalle botteghe, piccole, umide, senz’aria». La corporazione dei calzolai era la più numerosa della città.
Novembre 1905: «Entro il mese corrente devono essere presentate le domande per avere i libretti con i quali i pellagrosi poveri possono prendere gratuitamente il sale». La pellagra era una malattia che colpiva soprattutto le popolazioni che si cibavano in prevalenza di granturco o che hanno avuto un’alimentazione insufficiente e priva di certi elementi necessari alla nutrizione e caratterizzata da alterazioni cutanee e, nelle parti scoperte, da gravi disturbi digestivi, nervosi, psichici, fino a portare alla follia. Nel 1900 il Comune tifernate, in accordo con la Provincia, aveva istituito un pellagrosario nell’ex convento dei Servi di Maria (Madonna delle Grazie), un altro sopra il Gorgone, oggi Muzi Betti.
In quel tempo, nei vari stadi della malattia, si contavano nel Comune circa quattromila pellagrosi.
Novembre 1905: «Domenica sera alle ore otto fu fatta la prima prova dell’illuminazione elettrica a Città di Castello. La prova riuscì benissimo, assistevano al fatto, malgrado il tempo pessimo, molti cittadini che tentarono una manifestazione al grido di “Abbasso il petrolio!”. Domenica prossima saranno accese le lampade a incandescenza al Prato e a San Giacomo e piano piano i lampioni a petrolio scompariranno». Ma le cose non dovettero andare per il verso giusto, si scrive: «Il servizio della luce va malamente. Si fece passivamente la distribuzione delle lampade avendo cura soltanto di illuminare le vie dove abitano i consiglieri e gli assessori comunali. Le vie secondarie furono trascuratissime. Gli abbassamenti di luce sono frequentissimi e bisogna ricorrere ai vecchi lumi a petrolio che in realtà rimpiangiamo».
Luglio 1906: «Dall’ufficio comunale l’impiegato addetto all’emigrazione, Emilio Pierangeli, comunica che nel primo semestre di quest’anno sono stati rilasciati 607 passaporti per l’estero, di cui 505 per la Francia, 47 per gli Stati Uniti, 54 per la Repubblica Argentina». «Qui a Città di Castello abbonda la manodopera, ma manca il lavoro e si va in Francia alla ventura, affrontando disagi senza numero…». Ma un opposto disagio alberga nei francesi che scrivono: «Questa invasione di italiani! Cominciano a esagerare con le loro pretese, presto ci tratteranno come un paese conquistato». Quando i castellani erano extra-comunitari!
Luglio 1906: «In un’ora non precisata della notte del venti scorso, ignoti riuscirono a penetrare nelle chiese di Sant’Antonio e San Giuseppe di questa città, involando 12 pianete, un piviale, un calice d’argento, 12 cuori votivi in argento e altri oggetti di minor costo per un valore complessivo di lire 1000». La chiesa di Sant’Antonio è oggi il Nuovo Cinema Castello, quella di San Giuseppe, detta anche dei dolorini, è oggi la galleria d’arte di Luigi Amadei.
1907: «Al teatro Bonazzi il “Marchese del Grillo” ha avuto un grande successo d’ilarità. L’operetta veramente non vale molto, né per la tessitura comica, né per la musica, ma vi sono alcune spruzzatine amenissime, vi ha potuto sfoggiare il buffo Domenico Orienti nella parte di Giacomone il carbonaio romano, divenuto tra una sbornia e l’altra una vera eccellenza». Il Teatro Bonazzi sarà poi Cinema Vittoria, oggi... "Ah, Castello, vituperio delle genti!".
Agosto 1907: Era tradizione fino all’ultima guerra che per le fiere di San Bartolomeo al Teatro degli Accademici Illuminati venissero rappresentate opere liriche, ora è la volta della “Tosca” di Puccini: «Quest’anno per merito della Pro-Tiferno avremo un buon spettacolo teatrale, infatti sarà rappresentata la “Tosca” di Giacomo Puccini. L’elenco artistico è di prim’ordine: Jole Massa è Tosca, Salvatore Leonardi Cavaradossi, il coro è tutto castellano», il cronista si dilunga a elencare uno per uno gli altri componenti dell’opera, quando a ciel sereno la butta in politica: «La “Tosca”, oltre che per i suoi meriti intrinseci, mette alla gogna il sudicio clericalismo dei colli torti». Toh, incarta e porta a casa!
P.S. I vecchi di tanti anni fa (quelli di oggi siamo noi) a proposito del capolavoro pucciniano raccontavano di quella volta che, con il Teatro degli Illuminati pieno come un uovo, e l’opera che stava volgendo alla fine con Mario Cavaradossi che cantava l’aria “Lucean le stelle” dove si crucciava di morire disperato, qualcuno dal loggione con voce come tuono lo avvertiva: «’N sé solo!». Certo, un’emozione interrotta, ma un morituro consolato.
ANGIOLO PIERONI Angiolo Pieroni, 90 anni vissuti bene.Questa piazza, la più bella di Castello, non ha niente da spartire con quello che si trova scritto in queste pagine, ma ha da spartire qualcosa con il suo autore che in questi giorni compie 90 anni. Il suo nome è Angiolo Pieroni, una bella persona che da una trentina d’anni, con le sue chine, vivifica questa pagina da cui sono nati dieci libri accolti con simpatia dai tifernati. Altrimenti al secondo volume si sarebbe “chiuso bottega”. «Il successo di questi libri – è stato scritto – è dovuto anche al felice connubio tra gli scritti dell’autore e lo stabilizzatore di immagini. Gli uni belli, le altre pure. Angiolo Pieroni si è soffermato a dipingere in olio di china gli scorci più significativi di questa atipica città dell’Umbria, dove si mescolano reperti romanici e medioevali e monumenti rinascimentali, chiese e conventi, stradine e viuzze, dove Pieroni, con l’abilità che confina con l’arte fa riemergere dei nitidi particolari…». Caro Angiolo, non ti sei accorto che nella tua piazza di sotto c’è lo zampino di Baldino, altro artefice del disegno che pur suonando altri tasti della stessa musica si accomuna con te nell’esaltare questa vecchia città di pietra. È riuscito, Baldino, a intrufolare nella tua piazza di sotto quel ragazzino che nel 1943 andò alla “libreria del Vescovo” a cercare il libro Cuore che non trovò. Grazie di tutto Angiolo Pieroni, sei una bella persona e un maestro della china. Un forte abbraccio che sa di autentica amicizia. E avanti, verso il centenario! |