DOSSIER - Raffaello: 500 anni dalla morte
La storia europea è punteggiata di alcune rare parentesi nelle quali il tempo pare fermarsi, la geografia restringersi alla cinta muraria di un’unica metropoli e il genio umano spiegare appieno le proprie capienze artistiche: come quando, ad Atene, Fidia decorava il Partenone, Euripide componeva le sue tragedie, Tucidide il resoconto della guerra del Peloponneso, Platone narrava le ultime ore di Socrate; come a Roma, circa quattro secoli più in là, allorché Virgilio cantava in esametri le peregrinazioni di Enea, Orazio la filosofia del carpe diem, Ovidio le metamorfosi degli dèi e dei mortali; come, oltre un millennio più tardi, quando nella Firenze del primo Quattrocento, Ghiberti scolpiva le porte del Battistero e Brunelleschi erigeva la cupola di Santa Maria del Fiore, simbolo supremo della baldanza dell’Italia alla prima fioritura dell’Umanesimo. Un altro simile momento si sarebbe verificato di lì a poco, a Roma, durante i primi anni del Cinquecento allorché Raffaello affrescava per Papa Giulio II la Stanza della Segnatura, a poca distanza da Michelangelo che dipingeva la volta della Cappella Sistina: ai contemporanei doveva sembrare che la bellezza esalasse un sospiro di distensione. Di certo uno spirito come Raffaello, così responsivo alle idee altrui, non poteva restare indifferente alle immagini create dal più anziano maestro.
Nella Scuola di Atene è facile scorgere l’influenza del Buonarroti: testimonianza dell’ammirazione nei confronti di Michelangelo rimane la figura di Eraclito – successivamente aggiunta all’affresco – le cui fattezze riproducono il viso del pittore e scultore di Caprese. Né ad accomunare i due grandi del Rinascimento maturo era unicamente la statura di pittori intramontabili. Basti pensare alla cultura umanistica di cui entrambi erano imbevuti, nonostante i paletti imposti da una formazione artigianale nelle botteghe rispettivamente del Ghirlandaio e del Perugino. Sul tema occorrerebbe che i critici d’arte ritornassero con maggiore scrupolo poiché molte ombre sarebbero ancora da chiarire. Se Aristotele, accanto a Platone in alto sulla scala della Scuola di Atene, regge nella mano sinistra la propria Etica non sarebbe opportuno richiamare al riguardo gli stretti rapporti intrattenuti dall’artista urbinate con Città di Castello? Allora qualcuno potrebbe utilmente rammentare che tra i figli della medesima cittadina assurti a fama internazionale nel corso del Quattrocento emergeva quel Gregorio Tifernate che aveva egregiamente reso in latino sia l’Etica Eudemia sia i Magna moralia aristotelici. Che dire poi dell’impronta lasciata nell’istruzione raffaellesca dalla permanenza nel capoluogo umbro, a Perugia? A quei tempi ogni abitante conosceva per dottrina e per facondia retorica l’umanista e cancelliere Francesco Maturanzio, oltretutto ideatore del programma iconografico della Sala dell’Udienza nel Collegio del Cambio, affrescata dal maestro di Raffaello, il già menzionato Pietro Vannucci. Latinista e grecista tra i più dotati e versatili del Rinascimento, Maturanzio si faceva paladino di un classicismo severo ed ecumenico il quale avrebbe potuto bene captare l’attenzione del più giovane forestiero: la questione esige ancora approfondimenti puntuali, riferibili semmai all’iconografia del Sogno del cavaliere (c. 1504: presumibilmente raffigurante quello Scipione Africano già presente nella Sala dell’Udienza perugina), della Stanza della Segnatura, della Galatea (1511) nella Villa Farnesina nonché del Giudizio di Paride (come si sa, a sua volta fonte di un celeberrimo quadro di Manet).
Tanti sono i legami che uniscono Raffaello a Michelangelo: ad esempio, la frequentazione dei letterati e l’attività poetica in proprio. Il primo dei due, oltre a realizzare un celebre ritratto di Baldassare Castiglione, dal 1504 al 1513 alla corte di Urbino (esperienza immortalata nel Libro del cortegiano), fu in buoni rapporti con Pietro Bembo, a cui spedì un doppio ritratto degli amici letterati Andrea Navagero e Agostino Beaziano, e con il Bibbiena, del quale decorava la Stufetta con scene amorose. Non coglie pertanto di sorpresa che nella medesima Stanza della Segnatura egli abbia voluto rappresentare il monte Parnaso, sacro ad Apollo e alle Muse: vi si riconoscono, incoronati di allori, Saffo, Virgilio, Dante, Petrarca e Sannazaro; l’effigie del cieco Omero rappresenta peraltro un capitolo non insignificante nella traiettoria della riscoperta umanistica del padre della letteratura europea. All’appena nominato Bembo si deve l’epitaffio sulla tomba del Sanzio nel Pantheon: il distico elegiaco “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci / Rerum magna parens et moriente mori”.
Il giovane Raffaello non ha trascurato di scrivere versi, che per qualità e quantità risultano molto modesti. Il corpus lirico petrarcheggiante dell’Urbinate non è paragonabile con l’opera poetica michelangiolesca, immensa per mole, poliedricità e profondità di sentimenti.
Di John Butcher