Politica. Come è cambiata la politica negli ultimi 50 anni. Lo abbiamo chiesto a due protagonisti dell'epoca: Venanzio Nocchi e Franco Ciliberti
Cinquanta anni fa venivi eletto Sindaco. Fu una sorpresa per tutti. Come si arrivò alla tua elezione?
Nonostante sia passata quasi una vita, ricordo molto bene il giorno in cui, in piena estate del 1970, Silvio Antonini, allora Parlamentare del PCI, mi venne a trovare a casa per comunicarmi che il direttivo cittadino del partito aveva deciso “dopo approfondita discussione” di propormi alla carica di Sindaco della Città. Puoi immaginare il mio sbalordimento. In effetti, capolista alle elezioni amministrative era stato Gustavo Corba, già Sindaco dal ’58 al ’64, ma la volontà del partito di indicarlo come prossimo segretario della Federazione provinciale impedì la sua utilizzazione al vertice della Amministrazione comunale. La mia elezione – avevo solo 24 anni – avvenne all’inizio di settembre, dopo una trattativa sfiancante con il PSI cittadino che pretendeva di avere la maggioranza dei membri della Giunta. Naturalmente questo fu impedito, ma si verificò comunque la singolare situazione che vide gli stessi assessori socialisti del precedente quinquennio amministrativo, vissuto con la DC, entrare nella nuova giunta di sinistra, immaginando così di dare continuità all’esperienza precedente. Ma la situazione politica e sociale di Città di Castello era cambiata così radicalmente da rendere inimmaginabile la riproposizione di vecchie impostazioni.
Al di là delle apparenze e nonostante si parlasse del Sindaco più giovane d’Italia, non fu una elezione indolore. Il PCI dovette metabolizzare la tua nomina perché comunque ritenuta estranea alla tradizione. Cosa avvenne in realtà?
La mia elezione a Sindaco fu, in effetti, un evento mediatico trattato anche in cronaca nazionale. Incuriosiva la mia esperienza di giovane insegnante che, apparentemente, sembrava estraneo alla politica; dedito semmai ad altri interessi, come la musica, ricordando la mia attiva presenza nella Schola Cantorum della Cattedrale. In realtà, la mia passione per la politica era maturata già da tempo. Subii 5 giorni di sospensione dalle lezioni perché aderii all’inizio degli anni ’60, assieme a non molti altri studenti del Liceo, alla manifestazione cittadina contro la bomba atomica; come destò scalpore negli ambienti liceali, un po’ di tempo dopo, la notizia della mia iscrizione nel 1962 alla Federazione giovanile comunista. È vero, però, che nel periodo della frequenza universitaria il mio impegno fu dedicato essenzialmente allo studio e alla musica, per cui la mia candidatura al Consiglio comunale, richiesta e sostenuta a quel tempo da Franco Pannacci, fu una novità per molti; anche nel PCI cittadino dove diversi, stranamente – forse perché cantavo in Chiesa, frequentavo amici credenti e mi ero innamorato di una cattolica praticante – mi consideravano un catto-comunista, dunque da controllare.
Dopo poco la tua elezione ci furono delle fuoruscite dal partito, anche a livello nazionale. Quali ne furono le cause?
Il biennio ’70-’72 si caratterizzò per un lacerante conflitto politico interno al PCI cittadino. Una corrente del partito non aveva accettato la mia elezione a Sindaco. Il conflitto degenerò sulle questioni urbanistiche e sul tipo di sviluppo da dare alla città. Quella parte si oppose alla riprogettazione della lottizzazione La Tina, deliberata dalla Giunta comunale (con grandi mugugni socialisti) che finalmente imponeva il rispetto degli standard urbanistici e il pagamento delle opere di urbanizzazione ai privati, in precedenza sollevati da quasi tutti gli oneri. Lo scontro si acuì a tal punto da causare l’uscita di 5 consiglieri comunali dal gruppo del PCI, che costituirono una rappresentanza consiliare autonoma. La maggioranza politica non esisteva più; il pericolo dello scioglimento anticipato del Consiglio comunale era improvvisamente un’eventualità probabile. Allora ci fu una sfida pubblica, con un dibattito drammatico svolto alla luce del sole e un congresso che sancì l’espulsione di quei consiglieri.
La situazione politica in quegli anni era in fermento: il ’68 aveva rotto gli schemi tradizionali di vita, la Chiesa si stava rinnovando, la guerra in Vietnam scaldava le opinioni pubbliche mondiali, la DC aveva aperto alla sinistra. Il mondo si era messo in movimento e con esso la politica. Cosa avvenne in quel periodo nel tuo partito?
È giusto parlare di grande fermento politico e culturale a Città di Castello tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Il nuovo clima politico chiedeva partecipazione popolare, spingeva a considerare centrali la giustizia sociale, la questione studentesca e operaia, sollecitava un cambiamento. Con la nascita delle Regioni sembrò di vivere un periodo di grande innovazione; Città di Castello interpretò un ruolo protagonista in quel decennio e crebbe respirando la storia del mondo. Non c’era tematica nazionale o mondiale – il dialogo tra cattolici e comunisti, i diritti civili, le manifestazioni operaie, la guerra in Vietnam – che non trovasse eco in animate discussioni in Città e in Consiglio comunale. Il PCI, a Città di Castello, come in Umbria e in Italia, si confrontò e si divise sul tema del compromesso storico, ma da noi la linea politica di Berlinguer fu attuata senza oscillazioni. La civiltà dei rapporti politici con la DC permise di superare gli scogli dei due referendum – divorzio e aborto – senza gravi lacerazioni. Così, la crisi occupazionale, conosciuta nella seconda metà degli anni ’70 – Avila, Tiber, Valtib – fu affrontata con spirito unitario da una città che, dopo l’assassinio di Aldo Moro, sentiva anch’essa che si chiudeva un’epoca politica e si avviava un periodo difficile.
Come era strutturata la politica all’epoca e come è cambiata in questi 50 anni.
È terribile ammetterlo, ma si deve riconoscere che in 50 anni il ruolo della politica nella vita comunitaria si è inaridito. Se nel tempo del mio impegno come Sindaco, alle assemblee, incontri molto frequenti - in specie dopo la costituzione dei Consigli di quartiere e di frazione – si sommavano le riunioni di cellula (sì, esistevano anche le cellule nella organizzazione radicata del PCI – dove c’era un campanile lì doveva nascere anche una cellula del partito –), di sezione, del comitato comunale e via salendo, che garantivano una conoscenza profonda e attualizzata del territorio e delle persone, da anni questo grande afflato politico e culturale non esiste più. Non solo perché il PCI si è suicidato, ma perché il PDS-DS-PD ha irresponsabilmente rescisso il rapporto con il mondo del lavoro e con il popolo, adeguandosi a un modello sociale che ha colpito duramente il suo antico insediamento sociale. Oggi lo spirito comunitario si è volatilizzato nella società liquida e i soggetti della politica, che si dichiarano ancora di sinistra, hanno accettato l’esistente rinunciando a corrispondere al dramma sociale che ha coinvolto così tante comunità di umani.
La coscienza è scossa dal dolore, ma la speranza non rinuncia a immaginare una luce giù in fondo al tunnel. ◘
Di Venanzio Nocchi