Viaggio nei quartieri
Poco dopo la seconda guerra mondiale, per dare lavoro ai disoccupati che premevano, venne costruita via Martiri della Libertà, che dalla Tiberina va su fino al cimitero. Oltre il “ponte di Scarpone” sul torrente Scatorbia (all’imbocco di via Celestino II), allora era tutta campagna. Mancava ancora un progetto di sviluppo della periferia, ma già si sapeva che la città si sarebbe subito estesa in quella direzione. Troppe le circa 10.000 persone che vivevano all’interno del centro storico (ora sono poco più di 3.000). Bisognava dunque costruire nuove case, e in fretta.
Questo fu l’inizio. Oggigiorno il quartiere si estende dal colle di Montedoro, con il vicino cimitero, fino alla zona di Meltina, con la scuola media “Pascoli”. Lo abbraccia la parrocchia di San Pio X.
Basta una passeggiata per rendersi conto di come nei primi anni si sia sviluppato in modo convulso e disordinato. Benché periferia, alcune vie sono troppo strette, talvolta tortuose. Sembrano dei vicoli. All’incrocio tra via Amicizia e via Giovagnoli c’è un incrocio così sbilenco, astruso e pericoloso da essere unico nel suo genere. L’incrocio tra via Martiri della Libertà e via Dante Alighieri – che è un passaggio obbligato – è incredibilmente senza marciapiedi e strisce pedonali. Si alternano senza un plausibile criterio palazzoni e palazzine. Solo la parte più recente, tra viale Torreggiani e Meltina, ha un chiaro e apprezzabile criterio urbanistico.
È un quartiere popolare, con qualche angolo occupato da residenti più benestanti. È pure tranquillo, senza zone degradate, senza particolari emergenze sociali. Ed è sostanzialmente coeso, più per i meriti della gente che ci sta che per le occasioni offerte dalla sua struttura urbanistica.
Proprio per il modo in cui è sorto e si è sviluppato, l’agglomerato Montedoro-San Pio tende ad essere un quartiere con modeste proposte di socializzazione. È vero che ci sono le scuole dell’obbligo, che ha una chiesa al suo centro, che non mancano spazi verdi; ma è altrettanto vero che non offre attrattive dal punto di vista del commercio, della cultura e del tempo libero. Bisogna andare da altre parti per fare shopping, per godersi spettacoli ed eventi, per rilevanti forme di socializzazione, per cercare spazi di piacevole condivisione. I negozi e i locali pubblici esistenti hanno infatti un giro molto locale, che premia alcuni e ne penalizza altri. Qualche attività commerciale si è trasferita altrove, in cerca di una clientela più vasta e di spazi più consoni.
Per la sua vera vivibilità, il quartiere dipende quindi molto dal centro storico. Non dovrebbe essere un gran problema: in fin dei conti è distante poche centinaia di metri. Tuttavia la distanza “percepita” è ben maggiore di quella reale. Gli “accessi” al centro storico sono infatti molto problematici. In sostanza ce n’è solo uno: via Martiri della Libertà, con l’“imbuto” che si forma tra il passaggio a livello e lo sbocco in viale Vittorio Veneto. Quasi tutto il flusso di traffico automobilistico, ciclistico e pedonale converge dal quartiere verso questo “imbuto”: una strada stretta e con doppio senso di circolazione, in certi tratti con marciapiede ridottissimo, se non addirittura priva di esso. Una strada scomoda e pericolosa per pedoni e, soprattutto, per ciclisti. Per chi vorrebbe andare in bici non ci sono alternative a via Martiri della Libertà. Per i pedoni che stanno tra viale Torreggiani e Meltina c’era quello schifo di sottopasso ferroviario presso la stazione, adesso chiuso. Più su, verso Montedoro, per i pedoni ci sarebbe il soprapasso ferroviario metallico di via Fabrizi; il fatto che sia poco transitato è la dimostrazione lampante di un qualcosa che non funziona.
Questo è uno dei problemi più seri, in prospettiva. In tutte le città amministrate con criterio e lungimiranza – non importa se dal centro-sinistra o dal centro-destra – la questione dei percorsi ciclo-pedonali dalla periferia al centro storico viene affrontata e spesso risolta brillantemente. Qui siamo ancora indietro, e di parecchio. Si chiacchiera molto di “piazza Burri”, di questo gioiello urbanistico che dovrebbe essere un fiore all’occhiello della città, ma non si trovano soluzioni a problemi che condizionano la vivibilità di migliaia di persone.
Lo stesso destino della ferrovia – e il suo penoso stato attuale – rappresenta un problema centrale del quartiere. Di fatto, al giorno d’oggi, la linea ferroviaria e il suo passaggio a livello sono uno sbarramento che impedisce il “dialogo” fra periferia e centro storico.
Lì nei pressi, il complesso del centro Le Fonti e l’area antistante contribuiscono a trasmettere una sensazione di incompiutezza e di precarietà. A giudicare dagli spazi inutilizzati, o sottoutilizzati, l’edificio Le Fonti ha avuto un successo commerciale inferiore alle attese. Pulsano considerevole attività il supermercato Coop e, la sera, una pizzeria. Ma il complesso non è diventato quel polo brulicante di vita che alcuni si attendevano. L’area verde di fronte è lasciata molto a se stessa, poco frequentata, con una pista di pattinaggio mai utilizzata e in degrado. Non possono non sorgere seri dubbi sulle scelte urbanistiche fatte a suo tempo. Ora dicono che la riqualificazione della zona dipenderà dalle scelte che si faranno in merito a piazza Burri, all’ex molino Brighigna e all’ex consorzio agrario. Ovvio, ma campa cavallo…
Per il resto, il quartiere non ha un suo centro, una sua piazza, dove viene spontaneo per la gente ritrovarsi, perché lì trova il caffè, dei negozi, l’edicola, un posto per fermarsi. Come si è detto, non c’è un “pensiero”, un progetto, alla base di questa zona periferica. Sono stati fatti dei rattoppi successivamente, senza però poter affrontare alla radice la questione. Per fortuna la chiesa di San Pio, con la sua centralità, funge da punto di ritrovo per diversi giovani e ha spazi di verde adiacenti; e per fortuna le scuole hanno un ambiente arioso. Tuttavia si scontano ora le colpe di amministrazioni comunali che non hanno saputo – forse non se lo sono nemmeno posto come problema – dare al quartiere un suo centro di interessi e di attività.
Tra i residenti c’è chi si accontenta. Dopotutto – dicono – potrebbe capitare di peggio: drogati nei parchi, paura di girare la notte, zone ghetto per gli immigrati, casamenti fatiscenti e malsani. Magari – dicono ancora – il Comune dovrebbe riparare più spesso il manto stradale. Beh, bastasse questo… Segno della decadenza è anche l’accontentarsi, se ovviamente ci si accontenta della mediocrità. In una fase storica nella quale i partiti continuano ad esistere solo come macchine acchiappavoti e non sono radicati nel territorio, sarebbe bene che l’associazionismo di quartiere si facesse portavoce anche e soprattutto delle questioni di vivibilità rionale. Perché in quel quartiere si dovrà continuare a vivere… ◘
Di Alvaro Tacchini