Martedì, 10 Dicembre 2024

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Il carcere come vendetta

Carceri: La difficile strada del recupero si scontra con pregiudizi antichi

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Mentre sono tornati in carcere anche gli ultimi condannati per reati di mafia, che stavano scontando la pena agli arresti domiciliari per motivi di salute aggravati dai rischi connessi alla pandemia in atto, dopo le accese polemiche sulla “legittima galera”, è uscito da pochi giorni un saggio che fa chiarezza proprio sul tema della pena: Vendetta pubblica – editore Laterza, autori Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, ed Edoardo Vigna, giornalista del “Corriere della sera” – una bella occasione per riparlare della inefficacia della pena afflittiva per i condannati alla reclusione.

La tesi di fondo del testo è la dimostrazione della debolezza della pratica punitiva per i rei che dovrebbero espiare la loro colpa quasi come una “vendetta” per il male compiuto, mentre una amministrazione carceraria che preveda attività culturali come il teatro, la lettura, l’artigianato e soprattutto il lavoro e i permessi premio, determina l’effettiva possibilità di reinserimento sociale sancita dall’articolo 27 della Costituzione.

Qualche dato: mentre le recidive di reato toccano il 70% per i detenuti comuni, i casi di nuovo reato per chi ha goduto di attività di lavoro e di permessi premio è dell’1,08%. È indubbio tuttavia che ci sia una buona parte dell’opinione pubblica che ritiene il “carcere senza sconti” la giusta pena per chi ha sbagliato e pertanto deve “marcire in galera” (anche secondo un illustre onorevole ed ex-Ministro della Repubblica italiana). Questa voce è forte probabilmente anche fra i cattolici praticanti, nonostante il Papa abbia dichiarato recentemente che per le persone in carcere «non può esserci una pena senza un orizzonte».

Ne parliamo con il dott. Roberto Bezzi, responsabile dell’area educativa del carcere Bollate di Milano.

Perché il principio della vendetta pubblica è così diffuso nell’opinione pubblica? Un leitmotiv anche per deputati e persone delle istituzioni…

«Il problema è che oltre al mandato istituzionale, la pena ha, di fatto, anche un mandato sociale ben diverso. Quest’ultimo, per il quale molte persone sono “spettatrici” della pena, non è inteso in termini di efficacia e utilità: la gente spesso non si interroga sugli effetti “finali” della pena, che dovrebbe creare maggiore sicurezza sociale e ridurre la recidiva, ma sugli effetti immediati, ovvero la neutralizzazione, la incapacitazione dei condannati. È una sorta di vendetta per conto terzi, a prescindere da costi/efficacia. Ciò accade perché il rapporto che la cittadinanza ha con il carcere non è lo stesso che ha con gli altri servizi pubblici, di esplicito carattere funzionale. Al contrario, la detenzione, mentre sollecita l’emotività e la scarsa lucidità, ha una forte valenza simbolica: il muro di cinta separa i “buoni” dai “cattivi”, quindi diviene necessario anche in termini identitari.

carcere1Alcune ricerche evidenziano che la percezione della paura è aumentata negli ultimi anni a fronte della diminuzione dei crimini e proprio da tale paura nasce la richiesta sanzionatoria di un inasprimento delle pene detentive, tanto che, anche di fronte ai dati sulla recidiva molto bassa per chi sconta la pena attraverso modalità alternative, molte persone prediligono comunque la risposta unicamente detentiva, anche quando risulta inefficace. Si tratta di una realtà percepita in cui anche i mezzi di comunicazione e un certo tipo di linguaggio e di messaggi politici hanno evidenti effetti in tal senso».

E quindi a che punto siamo con l’affermazione della cultura giuridica più alta, che fa capo a un principio fondamentale della Carta costituzionale (rieducazione e reinserimento sociale), presente nell’articolo 27?

«La Costituzione è molto chiara quando all’art. 27 III comma prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione. Utilizzando il plurale, “le pene”, il testo fa intendere una pluralità di risposte sanzionatorie e non già una sola pena e cioè comunemente il carcere. Altrettanto chiara la finalità rieducativa, quindi il fatto che le pene siano utili ed efficaci. La detenzione, che avviene in un contesto estraneo a quello sociale, non può certo da sola modificare i contesti e le marginalità in cui nasce la devianza. Questo significa che il mandato, di non facile realizzazione, è comunque raggiungibile attraverso varie modalità di esecuzione penale, anche con l’applicazione delle misure alternative, che nella sostanza danno risultati largamente accertati».

Per alcuni di questi [giovani] la detenzione rischia di incrementare paradossalmente l’identità delinquenziale, perché alcuni contesti sociali ne danno una lettura positiva (“sei stato in galera… sei un figo”)


Quanta attenzione viene rivolta ai minori e ai giovani in carcere, che sono quasi sempre vittime di famiglie e contesti sociali che non hanno garantito loro i più elementari diritti all’amore, alla custodia  e all’educazione…?

«Il sistema penitenziario minorile, così come le sezioni per giovani adulti negli istituti ordinari, presta un’alta attenzione, come prevede l’ordinamento penitenziario, a tale fascia di detenuti che, proprio per la loro giovane età, sono più facilmente influenzabili dal contesto e quindi devono poter accedere in primis a percorsi di formazione, che li sollecitino a sperimentare altre parti di sé (spesso potenzialità mai conosciute) e ad acquisire un livello culturale che permetta loro di leggere in termini critici anche i contesti di provenienza e spesso i falsi miti che li hanno fatti avvicinare al reato. Con i minorenni o i giovani adulti si devono trovare perciò proposte e stimoli più allettanti del crimine che, in quella fascia di età, ha un forte impatto simbolico sulla percezione della forza e della credibilità. Per alcuni di questi la detenzione rischia di incrementare paradossalmente l’identità delinquenziale, perché alcuni contesti sociali ne danno una lettura positiva (“sei stato in galera…sei un figo”)».

A proposito di attività di rieducazione, qual è la sua esperienza sul campo, cioè nella II Casa di Reclusione di Milano-Bollate?

«In parole semplici il nostro lavoro, nell’ottica del mandato istituzionale, è proprio quello della pena efficace. Creare un contesto responsabilizzante, che non renda passivi i detenuti e che li ponga davanti a delle scelte precise (corsi, laboratori, lavoro, ecc.): un percorso di crescita psicologica importante per diventare veramente adulti.

Nei percorsi che noi proponiamo c’è sempre uno spazio di pensiero per il danno e per la parte offesa. Infatti, sia in termini materiali (chi lavora spesso avvia pagamenti rateizzati del risarcimento) sia in termini simbolici (attraverso attività di volontariato per fasce fragili della società). Non dimentichiamo che il carcere/vendetta fa sentire anche il reo-vittima e la vittimizzazione si sostituisce al senso di responsabilità e annienta la consapevolezza del danno arrecato».

Emergenza Covid: come è stata gestita? È stato detto che il confinamento dei detenuti ha aperto paradossalmente possibilità di comunicazione nuove rispetto al passato.

«In carcere sono state messe in atto da subito misure di prevenzione, quali la sospensione dei colloqui con i familiari, la sospensione dell’ingresso dei volontari e delle uscite (tramite lavoro all’esterno e permessi premio) dei detenuti. Questa sorta di isolamento, comunque molto duro per i detenuti, è stato almeno efficace sul contenimento dei contagi.

Contemporaneamente l’aumento delle telefonate ai familiari e l’utilizzo di skype e whatsapp hanno compensato la mancanza di colloqui e per alcuni detenuti, i cui familiari vivono lontano dall’istituto, ha comportato la possibilità di “rivedere” con gioia dopo molto tempo i propri cari.

Sicuramente la tecnologia segna una sorta di ammodernamento del sistema penitenziario, che potrebbe incidere positivamente sull’isolamento dei detenuti e sulla loro estraneità a questi mezzi». ◘

Daniela Mariotti


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