DOSSIER: Raimon Panikkar: un pensatore profetico
«Il mondo sarà dei meticci», ha scritto Aimé Césaire in un’anticipazione profetica a metà degli anni ’60 descrivendo la situazione culturale contemporanea. Raimon Panikkar è stato davvero un meticcio eccezionale che ha saputo attraversare due mondi, quello dell’Occidente e quello dell’Oriente, senza sprofondare nell’abisso e mantenendo la propria identità. L’ho visto camminare più volte sull’orlo dei precipizi sulle montagne della Catalogna o in quelle del Kerala, come se il suo destino fosse quello di sfiorare le vertigini o di inoltrarsi in sentieri sconosciuti. Si è addentrato nell’induismo e nel buddhismo non con l’atteggiamento di uno studioso che si china su un oggetto da approfondire, ma da autentico contemplativo che si mette davvero in ascolto dell’altro e di quella parte di noi che ancora non conosciamo. La sua è stata una lotta interiore intessuta di preghiera, di silenzio, di contemplazione. Ne è scaturito un uomo ferito ma autentico, capace di mettersi in ascolto delle differenze.
Panikkar è stato un artista del dialogo e ha invitato le culture umane a realizzare quella fecondazione reciproca che sembra così urgente nel momento attuale, anche perché nessuna cultura può ritenersi autosufficiente per fronteggiare la situazione contemporanea. E soggiungeva, con un pizzico di malizia, di non dover adoperare alcuna sorta di preservativo per evitare la fatica della rinascita e della conversione.
Il dialogo allora diventa il compito più importante del nostro tempo, perché permette di rinnovare le prospettive culturali con le quali leggiamo la realtà. Secondo l’etimologia della parola, “dialogare” significa andare al di là del logos, della pura razionalità, per accogliere l’altro come parte di noi. Senza quella empatia che spinge a ospitare l’altro anche senza capirlo, il dialogo potrebbe trasformarsi in una dialettica mortale e distruttiva. Ecco perché egli parla di una sapienza dell’amore, che aveva lungamente esercitato nella sua vita per armonizzare nel proprio intimo la religiosità indù del padre con quella cristiana della madre e che gli appariva come il metodo più appropriato per trasformare le tensioni distruttive in polarità creatrici.
Panikkar è stato un autentico “pontefice” nel senso etimologico del termine, una persona che ha gettato ponti di comprensione tra culture diverse, senza idealizzarle e senza dimenticarne i valori essenziali. All’Occidente rimproverava la mania di ridurre tutto all’unità sotto l’egida di un razionalismo scientifico unilaterale, all’Oriente la scarsa sensibilità per i drammi delle popolazioni impoverite e affamate. Ma era pronto a riconoscere la potenza critica dell’Occidente e il vigore della spiritualità dell’Oriente.
Quello che gli premeva di più è l’intuizione cosmoteandrica, la relazione essenziale tra Dio, uomo e mondo. Quando gli ho espresso il desiderio di elaborare una tesi sul suo lavoro filosofico e gli ho chiesto quale fosse il nucleo essenziale del suo pensiero, la risposta non si è fatta attendere: l’intuizione cosmoteandrica. Egli è il testimone autentico di una comunione che abbraccia la natura, l’umanità e Dio stesso. Al di là della conoscenza empirica dei sensi e quella intellettuale della ragione, c’è un’altra apertura della realtà che è la conoscenza mistica, che libera dalla pretesa di afferrare tutto con la potenza della razionalità. C’è un conoscere per partecipazione che non analizza, ma diventa il conosciuto. Lo esprime mirabilmente il primo traduttore delle Upanishad con una frase lapidaria: Qui Deus conoscit, Deus fit, chi conosce Dio diventa Dio.
In Panikkar si è realizzata un’autentica trasformazione. Nei trentadue anni che ci siamo frequentati mi è capitato di condividere con lui lunghe passeggiate silenziose, durante le quali affidarsi al mistero diventava luminoso. Un silenzio pieno e contemplativo. Allora capivo il suo amore per l’espressione evangelica: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio», o la citazione di Evagrio Pontico: «Beati coloro che hanno raggiunto l’ignoranza infinita». E Panikkar non ha mai nascosto la sua simpatia per l’esperienza buddhista, che mette a tacere la domanda razionale su Dio.
Il fascino che emanava da lui era il frutto di una armonia interiore, raggiunta dopo un percorso di studio e di fede. Dell’intellettuale aveva la solida formazione, acquisita attraverso gli studi scientifici, filosofici e teologici, ma aborriva gli specialismi. Li considerava responsabili della frammentazione del sapere. La distruzione degli esseri umani sarebbe arrivata a ruota. Per superare la frattura tra conoscenza e amore, Panikkar riprende tre parole della saggezza greca: melete to pan, coltiva l’intero invece di analizzare le parti, ghinoske kairon, conosci l’opportunità che offre l’istante, este su, sii te stesso. La grande sfida per la civiltà dell’Occidente, affascinata dal mito della globalizzazione, sta nell’intraprendere una trasformazione eroica di tutti i nostri sistemi di valore.
Gli ultimi due anni della sua vita sono stati molto duri per Panikkar, perché la malattia gli aveva tolto la possibilità di lavorare intellettualmente, ma non aveva intaccato la sua solida spiritualità e la sua capacità di accogliere le persone che andavano a trovarlo. Anzi, era diventato più tenero e affettuoso. «L’amicizia è la cosa più bella della vita», mi ripeteva tutte le volte che salivo a Tavertet per riabbracciarlo. Il congedo col quale ci lasciammo era un invito alla speranza: «Tu sei unico, sei divino, credi in te stesso».
L’eredità che ci ha consegnato sotto il profilo intellettuale e spirituale è immensa e sarà molto visibile negli anni a venire, quando le incomprensioni e i pregiudizi che hanno ostacolato la sua opera svaniranno da soli.
Il suo pensiero per le esperienze da cui parte, che saranno condivise da ampi strati dell’umanità, avrà un grande futuro. Il suo monumentale lavoro costituisce l’espressione di una fede nitida e profonda, ma anche la capacità di rimodellare continuamente il suo percorso, pur rimanendo fedele alle intuizioni fondamentali. A noi, che lo abbiamo avuto come maestro e come amico, spetta solo il compito di prolungarlo. E Panikkar si sarebbe rallegrato che quello che in lui era vita cominciasse a incarnarsi anche negli altri. ◘
Di Achille Rossi