DOSSIER: Raimon Panikkar: un pensatore profetico
Il 26 agosto del 2010 Raimon Panikkar se ne andava, a 92 anni, per il suo viaggio ultimo: la pienezza della vita. Muore l’io, il frammento, lo scrigno – ripeteva – ma la vita non muore mai. Risorge in anima e corpo. Totalmente.
Le riflessioni e le annotazioni su quel crinale fra storia e tempo tornano continuamente negli appunti del suo diario fra paura, apprensione, rassegnazione e fiducia, trasporto, affidamento a quel Cristo che era per lui il simbolo del Dio plurale contro ogni pretesa monopolistica della religione (nemmeno il cristianesimo ha il monopolio su Cristo): «La mia vita giunge ormai non alla sua fine, ma al suo culmine. E sul monte nulla» scriveva in un frammento datato 1 dicembre 1997. Un anno dopo annotava: «Non credo che siano premonizioni, però sento che in qualsiasi momento il mio corpo potrebbe fermarsi e smettere di esistere. Non mi fa paura: non voglio allungare la vita artificialmente. La vivo con una intensità che in ogni momento me la “raccoglie” tutta intera». E ancora: «Veramente la meditazione sulla morte è la meditazione sulla Vita. Sentirsi morire è sentirsi vivere, non è sentire che la vita sfugge, bensì che si vive (in una maniera unica, irripetibile, concreta)».
Negli ultimi anni tornava spesso alla metafora della goccia d’acqua per rispondere alla domanda radicale sul senso dell’esserci al mondo: che cosa siamo noi? Che differenza passa fra l’essere della vita e la parabola dell’esistere? In una meditazione sulla Resurrezione, che tenne a Venezia in occasione di un grande omaggio per i novant’anni, disse: «Nella mia individualità io sono una goccia. Che avviene alla goccia quando cade nel mare? Se io sono soltanto goccia d’acqua, cado nella disperazione di un negativismo totale: sono predisposto per la morte e nulla più. Se durante la vita ho occasione, come dice l’induismo, di realizzarmi, cioè di diventare reale, allora divento quello che realmente sono: l’acqua della goccia. La goccia d’acqua sparisce, quando cade nel mare, l’acqua della goccia non sparisce, diventa il mare, diventa infinita, si realizza, si salva».
Il mare di Panikkar è ancora tutto da navigare. Si allunga oltre l’orizzonte del tempo presente, oltre la bagarre feriale delle nostre scaramucce del quotidiano e si staglia in quella dimensione infinita del tempo che egli aveva definito con un neologismo: tempiternità. Ossia lo stare nel tempo come se fossimo distesi sulla riva a contemplare la terra, il cielo, l’uomo. Sostare in un presente infinito senza l’assillo delle cose da fare, degli appuntamenti fissati nell’agenda, dello scorrere dell’orologio.
In questo tempo della vita circolare egli ci ha affidato un compito immane: preparare una dimora per la saggezza. Ossia aspirare alla felicità, alla gioia, all’armonia e dar loro un habitat, uno spazio, un diritto: «La saggezza dev’essere incarnata, possedere radici. Non esiste dimora senza fondamenta. Si dimora creando un posto, scoprendo un luogo. Questo luogo è la terra, la casa e il cuore umano. La saggezza è sempre ospite. Non senza una ragione più profonda l’ospitalità fu il primo dovere degli uomini nei confronti dei loro simili. Si deve accogliere la saggezza come una madre accoglie un figlio».
Sono passati dieci anni, ma tutto sembra ancora da fare. Forse il mondo si è fatto ancora più scisso e complicato. La realtà cosmoteandrica, risultato di una integrazione profonda fra Dio, uomo e cosmo, sembra aver subito un tremendo sconquasso per cui i tre piani, che nella visione panikkariana rappresentano la relazione radicale con il tutto vivente, se ne vanno per loro conto sempre più disarticolati. L’ecosofia, la saggezza stessa della terra, sta rivelandosi una eco-stoltezza, al punto che ormai gli effetti dei cambiamenti climatici e delle politiche di sfruttamento delle risorse naturali stanno provocando danni irreparabili su tutto l’ecosistema. Nemmeno la pandemia da Covid-19 è riuscita a fustigare il pensiero negativo e arrivista del nostro tempo sovranista per convincerci a riprogettare il mondo secondo forme di equilibrio e di tenerezza per ogni elemento della vita, anche quello apparentemente più effimero. Il post-coronavirus si preannuncia più furioso del pre-coronavirus e si protende con gli artigli su una storia più spregiudicata e insaziabile che mai.
Perfino il dialogo intraculturale e intrareligioso, su cui Panikkar ha speso l’intera vita, pare essersi rintanato in alcuni ambienti profetici, protetti e un poco elitari. Nell’articolazione sociale dominano sentimenti di rottura, di rancore, di odio e di demonizzazione dell’altro. La parola è stata come esiliata e non comunica più una verità veicolata dal di dentro. La parola si è esteriorizzata, frantumata, livellata, alienata: è poco meno di un segno trasmesso in uno spazio virtuale omogeneizzato. Ecco il dramma che stiamo vivendo: la parola sradicata, strattonata, rattrappita e armata ha rovesciato l’ordine delle cose, stravolgendo i nomi originari per cui la pace diventa guerra, il bene male, il brutto bello, l’ingiusto giusto, il morale immorale. L’aver perso la parola porta al conflitto. Panikkar ricorda la missione di Ramon Llull, il teologo e mistico catalano del Duecento che sapeva fare della parola un’arma della mediazione pacifica: «Contro la crociata guerriera e armata Ramon Llull propone la predicazione, ovvero la dialettica, la parola, il dibattito linguistico, confida che l’uomo sia un essere che parla (il che non vuol dire meramente razionale). Una antropologia dell’uomo sulla misura della parola è quella che propose Ramon Llull».
E le religioni che cosa sono diventate? Sono vie di liberazione da tutto ciò che ingabbia? O sono esse stesse dei sistemi di inquadramento in formule rituali rigide, ripetitive, dottrinali, clericali, oramai trapassate e frantumate dai rulli battenti della secolarizzazione trionfante?
Religio, nell’esperienza panikkariana, è quella dimensione profonda dell’esserci che ci consente di legarci, ma al contempo ci dà la libertà di slegarci. È l’esperienza del Mistero che prende cammini diversi a seconda delle tradizioni dentro cui si incarna, collocandosi su orizzonti mitici, simbolici e rituali particolari: «In breve, l’ermeneutica della libertà mi porta a considerare la religione come libertà. Riconoscere la libertà di religione significa svelare la religiosità della libertà e di conseguenza la religione come libertà».
Essere liberi diventa allora un essere della religione: «Ogni atto veramente libero è un atto religioso, che ci porta al Supremo (in qualunque senso vogliamo intenderlo). Ciò significa che la religione è ben altro che un insieme oggettivo di dottrine, di riti e di consuetudini che pretendono di trattare i fini ultimi della vita umana: è anche e principalmente un insieme di simboli liberamente accettati e riconosciuti in cui uno liberamente crede: è il regno della libertà».
Sono passati dieci anni, eppure il sogno diurno di Panikkar è ancora lì, sempre più lontano, ma al tempo stesso sempre più vivido. In una storia convulsa, polarizzata, sbrindellata, senza più una parola che sappia dare forma al linguaggio dell’umano, l’opera di Panikkar rappresenta uno dei progetti più affascinanti, profondi e ambiziosi per rilanciare un discorso nuovo sull’uomo, su Dio e sul Cosmo. Un inno d’amore verso il prossimo, che riverbera il mistero divino, perché noi vediamo Dio non nel marmo freddo di una statua, ma in quel volto altrui che siede al mio fianco, non un soggetto astratto e metafisico, ma un tu personale, il prossimo dato volta per volta con i suoi occhi, il suo sguardo, la sua bocca e il suo dubbio. ◘
Di Francesco Comina