Anghiari. Testimonianza di Chiara Mura, infermiera volontaria della Task Force della Protezione civile nell'epicentro della Pandemia nel mese di aprile
Chiara Mura, infermiera anghiarese super titolata. Tre anni di laurea in “Infermieristica”. Due anni di magistrale in “Scienze infermieristiche”. Due master a Firenze e a Siena: in “Responsabilità professionale” e in “Coordinamento” che corrisponde al ruolo di “Caposala”. Formatrice di “Salute mentale”. Insegna Infermieristica Psichiatrica ad Arezzo, nel Corso di laurea dell’Università di Siena. Opera nel reparto di “Salute Mentale Adulti” dell’ospedale di Sansepolcro. È partita come volontaria con 500 infermiere e infermieri chiamati, nel mese di aprile, dal “Servizio Sanitario Nazionale”. In piena situazione di emergenza da Covid-19, in particolar modo in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna. Abbiamo conversato con Chiara ponendole alcune domande.
Il Direttore Vicario dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) Ranieri Guerra aveva detto che nelle RSA (Residenze Sanitarie per Anziani), specialmente in Lombardia, c’era stato “un massacro”. Sei partita così, senza esitazione, con una certa baldanza?
«No, ci ho pensato e non ho deciso immediatamente, pensando che fosse una cosa di poca importanza. Negli anni passati avevo seguito un periodo di pratica infermieristica in “Terapia intensiva polmonare” nell’ospedale Careggi di Firenze. Non mi sono sentita un’eroina. Mi sono solamente detta che, una come me, poteva essere utile nella situazione di caotica devastazione che avveniva nelle strutture sanitarie del nord Italia. In fondo penso di aver fatto semplicemente il mio dovere. Il Ministero della Salute aveva richiesto d’urgenza 500 infermieri volontari, distaccati dalle proprie strutture di lavoro. Ai primi di aprile eravamo in piena situazione emergenziale con punte di mortalità impressionanti. La solidarietà è stata folgorante, al Ministero sono arrivate 10 mila domande, sono stata tra le selezionate e non ho avuto esitazione. Prima ci chiamavano gli “invisibili”, ora ci dicono “eroi”. Forse sarebbe più opportuno chiamare “eroi” tutti i 250.000 infermieri del Servizio Sanitario Nazionale».
E poi, una volta partita, dove ti hanno assegnata?
«Impeccabile l’organizzazione della Protezione Civile. In un primo tempo sembrava che il gruppo al quale appartenevo dovesse operare nell’ospedale civile di Aosta. In seguito siamo stati assegnati alla RSA di Verrès, un piccolo Comune di meno di 3.000 abitanti della Valle d’Aosta. Nella regione le RSA sono chiamate “Microstrutture Sanitarie”».
Arrivata a Verrès, che cosa ci puoi dire della situazione che hai trovato?
«La Microstruttura ospitava all’origine 28 anziani. 8 erano deceduti, i rimanenti erano tutti positivi al Covid-19. L’atmosfera era pesante. I colleghi, assistenti sanitari e una volontaria della Croce Rossa, lavoravano con grande impegno e responsabilità. Pensavo, con una certa inquietudine, alle decine di operatori sanitari che, in Lombardia, erano deceduti durante il loro impegno. E ho tremato per gli anziani che sarei andata a curare e avevo un timore contenuto che ci potesse essere ancora qualche altro decesso. La prima cosa che mi hanno insegnato sono state le operazioni fondamentali e obbligatorie: come ci si veste prima d’incontrare i pazienti e come ci si libera dagli indumenti, esauriti i contatti. Era come un rito ed erano operazioni fondamentali e di una certa complessità. Dovevamo indossare un camice particolare, tre paia di guanti, mascherine di diverso tipo: chirurgiche, FFP2, FFP3. Finalizzate al grado protezione. Tutti dovevamo essere pienamente consapevoli che la nostra protezione, ovvero l'aver cura di se stessi, era il presupposto principale per fronteggiare adeguatamente il Covid-19, aiutando chi ne era colpito. Dopo tre giorni, diciamo di “apprendimento”, noi infermiere volontarie siamo diventate responsabili della Microstruttura. Eravamo in tre, con l’aiuto di 7 operatori sanitari. L’impegno di lavoro si svolgeva in 8 ore, 4 per tutta la preparazione e 4 accanto ai pazienti».
Dopo i preparativi, dovevate incontrare i pazienti anziani tutti positivi al Covid-19. La cura ma anche l’assistenza, la comprensione, la pazienza, il sostegno, il conforto e la consolazione. Non sembra facile interagire con le persone anziane, fragili e vulnerabili. Come siete state accolte da quella umanità dolente?
«I pazienti anziani hanno un vissuto pieno di emozioni e dei legami intensi, spesso sono depressi e apprensivi e si sentono abbandonati. Ci ponevano domande: ma quando finirà questa cosa? Morirò anch’io? Perché mia figlia non viene? Il penoso allontanamento da ciò che fino a ieri era di conforto e spesso la convinzione di non poter resistere a lungo. «Guarda, i tuoi figli ti telefonano tutti giorni, aspettano con ansia che tutto finisca» dicevo io. Qualche momento eravamo inquiete e turbate, spesso intenerite ed emozionate. D’altro canto, il protocollo invitava le infermiere a non permanere più di quindici minuti con i pazienti anziani positivi al Covid-19. Certo, la vicinanza e la prossimità con pazienti così particolari è stata un’esperienza umana densa di insegnamenti».
Se tu fossi richiamata, ripartiresti Chiara?
«Non indugerei. Per dovere civico e per la crescita della mia esperienza professionale. E anche perché è stata una grande emozione, per me, nel riscoprire il bisogno di solidarietà verso coloro che soffrono. D’altro canto, dopo i ringraziamenti, ci hanno detto che facevamo parte della “Task Force” del Servizio Civile Nazionale in collegamento con il Ministero della Salute. Che era come di dire di tenersi disponibili». ◘
Di Antonio Rolle