Editoriale
Il conflitto tra armeni e azeri nella regione del Nagorno Karabakh ha fatto riemergere ferite mai sopite. Il massacro degli armeni durante la prima guerra mondiale è passato sotto silenzio, mentre le grandi potenze si distruggevano reciprocamente. Il milione e mezzo di morti, uccisi dagli stenti nelle steppe dell’Anatolia, non può essere dimenticato e la Turchia deve fare i conti con la Storia, al di là di un nazionalismo chiuso e miope. Purtroppo Erdogan ha imboccato la strada opposta e accarezza il sogno di un impero islamico fondamentalista e radicale che cancelli tutte le differenze. Nel frattempo la Turchia ha assoldato quattromila mercenari siriani dell’Isis per combattere gli armeni e i mercenari si esercitano nel cannoneggiare e distruggere tutte le chiese cristiane della regione.
I reportage dal fronte sono impressionanti: le persone sono costrette a ripararsi in rifugi di fortuna sotto il tiro dell’artiglieria azera. Quando suona la sirena ogni voce si zittisce. Le esplosioni si sentono sempre più vicine, ma in maniera irregolare e nessuno sa prevedere quando arriverà la prossima. Ormai la gente spera che la guerra finisca per poter tornare alla vita normale. Ognuno ha un amico, un fratello, un figlio al fronte, in prima linea, compreso il figlio del presidente armeno. L’unica radio rimasta a Stepanakert è Artsakh Public Radio che dà aggiornamenti ai soldati per rimanere in contatto con le famiglie. Ani Minasian è una giornalista di Yerevan che ha scelto di vivere e lavorare a Stepanakert per non abbandonare il suo popolo. L’incendio che ha infiammato il Caucaso deve essere spento al più presto con l’arte del dialogo e della diplomazia, prima che sprofondi in un nuovo genocidio. Forse la Russia e l’Europa possono placare le mire egemoniche di Erdogan prima che le minoranze siano schiacciate dal rullo compressore della Turchia. ◘
Di Antonio Guerrini