Domenica, 08 Dicembre 2024

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Donne palestinesi nelle carceri israeliane

Medio Oriente

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Dal momento in cui è iniziata l'occupazione, nel 1967, in Cisgiordania e a Gaza (ma anche in Israele), più di 10.000 donne e ragazze palestinesi “sono state arrestate e detenute dai soldati e soldatesse israeliane”. Gli arresti avvengono un po’ ovunque: nelle strade, nei checkpoint, con terribili e a volte tragiche incursioni notturne accompagnate da cani poliziotti. Vi è un luogo dove l’occupazione israeliana imprigiona le donne palestinesi, la prigione di Demon. Si trova vicino alla città costiera di Haifa. «In realtà non ti svegli (da sola) – spiega la 28enne Salam Abu Sharar – A svegliarti sono invece le voci dei carcerieri che gridano nei corridoi ogni giorno, alle 6 del mattino. Scendono per le sezioni, aprono le celle a una a una e ci chiamano per contarci.

Dobbiamo essere in piedi e pronte prima che ci raggiungano, altrimenti potremmo essere punite con l’isolamento. (…) Quando ci chiamano per contarci, entrano nelle celle e le perquisiscono, controllano i nostri vestiti e le nostre cose personali. Quando hanno finito, dobbiamo rientrare e le celle vengono chiuse. La cella è una stanza lunga 6 metri e larga 3. Possono viverci all’interno un massimo di 8 detenute. C’è appena lo spazio sufficiente perché 2 o 3 persone riescano a stare contemporaneamente in piedi fuori dai loro letti. (…) Tra le 8 e le 9 ci è permesso di uscire nel cortile. Possiamo guardare il cielo e prendere un po’ di sole attraverso la rete di filo d’acciaio sopra le nostre teste. Usiamo quell’ora per fare la doccia, dall’altra parte del cortile, le guardie ci controllano mentre ci avviciniamo alle docce e ritorniamo». Nel settembre del 2019 venne arrestata la studentessa palestinese Samah Jaradat di 25 anni. «L’esercito di occupazione ha fatto irruzione nella nostra casa prima dell’alba (…) Mi hanno portato in un centro per interrogatori a Gerusalemme, lì ho trascorso 22 giorni. Poi sono stata trasferita nel “Bosta”, il veicolo di cassone d’acciaio con cui si trasportano i prigionieri. Il “Bosta” è quasi completamente chiuso, con una piccola apertura in alto, da cui si può intravedere il paesaggio dei dintorni. Stavamo salendo il Monte Carmelo, vicino ad Haifa».

Quando negli anni '30 la Palestina era dominata dai britannici fu costruita la prigione di Damon, sopra al Monte Carmelo. All’inizio era una scuderia di cavalli poi una fabbrica di tabacco. «(Damon) è un contrasto sorprendente con la natura verde circostante. Una volta varcato l’ingresso mi sono ritrovata all’interno di una foresta di acciaio. Tutto è realizzato in acciaio azzurro e grigio. Anche il cortile è ricoperto da una rete di filo di acciaio attraverso il quale si ha uno scorcio di sole di un’ora al giorno». Ehteram Ghazawneh, capo dell’Unità di documentazione di “Addameer” (Prisoner Support and Human Rights Association) documenta: «Le condizioni di vita nella prigione di Damon non sono cambiate negli ultimi anni. L’edificio stesso è un problema. È vecchio, umido e freddo, privo di servizi igienici (…) la privacy è semplicemente inesistente. Le donne palestinesi vengono trasferite lì dopo l’interrogatorio, che segue l’arresto».

Privacy e palestinesi prigioniere in “stato interessante”.

Samah Jaradat afferma: «Quando sono stata portata nella sezione in cui si trovava la mia cella, sono rimasta scioccata nel vedere che siamo state osservate per tutto il tempo dalle telecamere. La maggior parte delle prigioniere palestinesi usa il velo e possono toglierlo solo all’interno delle celle. Ma devono tenerlo vicino a loro perché le guardie possono fare una perquisizione a sorpresa nelle celle in qualsiasi momento. Semplicemente non c’è privacy, mi ci sono voluti diversi giorni per abituarmi». Quando una donna palestinese incinta viene arrestata e finisce in prigione, allora tutto diventa un incubo. Nessun trattamento particolare viene organizzato per il regime alimentare, lo spazio vitale nelle condizioni peculiari delle donne e per l’accesso indispensabile ai servizi ospedalieri. Al momento del parto, la partoriente viene portata in ospedale sotto scorta militare, con mani e piedi spesso immobilizzati dai ferri. Resta incatenata e legata al letto nella sala parto. Viene infine nuovamente ammanettata subito dopo il parto. L’articolo 12 della “Convenzione Internazionale per l’Eliminazione delle Discriminazioni contro le Donne” (Convenzione ratificata anche da Israele), recita così: “Gli Stati membri devono vigilare affinché siano assicurati servizi appropriati alle donne in gravidanza, durante il parto e nel post parto, che dovranno essere gratuiti ove occorra, così (deve esserci) un’adeguata nutrizione durante la gravidanza e l’allattamento”. Nel 2008 “Addameer” ha documentato i casi di quattro donne che hanno dovuto partorire mentre erano detenute e che hanno ricevuto un’assistenza assolutamente carente sia nel periodo pre che post-natale.

Donne palestinesi nell’inferno della tortura.

donne medioriente1I soldati o le soldatesse israeliane denudano le prigioniere palestinesi spesso con la forza. Durante le ispezioni corporali le prigioniere sono costrette ad accovacciarsi nude in modo che le stesse soldatesse o i soldati (“una ONG israeliana ha raccolto delle testimonianze anonime in Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza nelle quali emerge che le donne soldato sono ancora più violente dei maschi soldato nei confronti dei prigionieri e delle prigioniere palestinesi”) possano condurre agevolmente “le ricerche corporali intrusive”. Le prigioniere che si oppongono vengono punite e inviate in isolamento. Le prigioniere palestinesi subiscono molestie sessuali anche con minacce di stupro per loro e per i famigliari. “Insulti degradanti a sfondo sessuale” sono diventati una comune esperienza delle prigioniere palestinesi. Le discriminazioni di “genere e di razza” sono diventate una pratica consueta, in particolare quella di offendere i costumi tipici della società patriarcale palestinese, che sono il fulcro delle abitudini sociali e familiari delle donne arabe-palestinesi. Sono tutte indegne pressioni che denotano disprezzo e vengono usate per incutere paura ed eventualmente per far confessare e ammettere colpevolezze dalle prigioniere stesse. In effetti, spesso, tali pratiche vengono eseguite in piena notte o durante i trasferimenti in tribunale. Il Direttore responsabile di un Centro di trattamento e riabilitazione per le vittime della tortura di Ramallah, il Dr. Mahmoud Siwail (come rileva “Addameer”), considera le ispezioni corporali sulle prigioniere palestinesi una innegabile e allarmante forma di tortura. È «un metodo di punizione che viola le norme sui diritti umani ed il “Diritto Umanitario Internazionale” e, segnatamente, la “Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti” oltre che la “IV Convenzione di Ginevra». ◘

(Ringraziamo la ONG palestinese Addameer (Prisoner Support and Human Rights Association), “La Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese”, la sempre utilissima e puntuale “Associazione di Amicizia Italo-Palestinese” di Firenze che, con le loro testimonianze, ci hanno guidato per scrivere questi brevi appunti).

di Antonio Rolle


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