Politica internazionale
Da tempo, quasi ogni mese, il nostro giornale affronta le dinamiche e gli effetti che tutti, umani e natura, stiamo vivendo in questi tempi complicati. “L’umanità in tempi bui”, avrebbe definito questa fase storica Hanna Arendt. “Il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere”, avrebbe commentato Antonio Gramsci. Una fase storica, inedita per concentrazione della ricchezza, per brutalità dello sfruttamento, per negazione di diritti, per inquinamento della natura, per le guerre in corso e per quelle a rischio. Per fortuna che Dio, come dicono i credenti, o madre natura, secondo i laici come me, ci ha dato in questi tempi bui Papa Francesco. L’unico leader mondiale che, dopo la resa di una Sinistra diventata liberista, ha il coraggio e la responsabilità di sfidare i dogmi del pensiero dominante e di opporsi alla dittatura del mercato e del neoliberismo feudale.
Due eventi si sono incrociati e sovrapposti in questi giorni: da una parte il G20 patrocinato dall’Arabia Saudita, dall’altra il vertice “The Economy of Francesco” convocato ad Assisi da papa Bergoglio. Al G20, sponsorizzato da Mohammad Bin Salman, l’islamodittatore che comanda su un regime criminale roccaforte del capitalismo finanziario e che ha ordinato di assassinare e fare a pezzi il giornalista oppositore Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, hanno partecipato solo i capi delle potenze internazionali e regionali. Uno solo, il Sud Africa, proveniente dal continente più povero.
Al controvertice di Assisi “L’Economia di Francesco” si sono confrontati duemila giovani economisti, sindacalisti, imprenditori, leader comunitari di tutto il pianeta. Due approcci e due finalità antitetiche. Quelli del G20 pensano che le attuali regole del mercato siano intoccabili, che la crisi attuale sia un evento di passaggio e che, magari, con il Covid ci si può persino guadagnare. Che tutto deve restare com’è, e che potere e ricchezze vanno difesi a tutti i costi e con tutti i mezzi. Per questo si aumentano in forma esponenziale la produzione e il commercio di armamenti sempre più costosi, sofisticati e letali. Il capo della Chiesa cattolica e con lui tanti altri nel mondo, laici e religiosi, “il progressismo delle nuove generazioni di coraggiosi e responsabili” lo definirei, pensano invece che sia urgente superare un sistema economico e politico neoliberista che produce guerre, fame ed esodi. Che crea squilibri umani, sociali e ambientali insostenibili, che stanno pregiudicando un sistema planetario che non reggerà più per molto.
E non stupisce allora il silenzio sull’evento di Assisi da parte di un giornalismo amorale e di media comprati e venduti un tot al chilo dagli stessi poteri economici liberisti. Può apparire un’anomalia, un’anomalia positiva, ma papa Francesco, volenti o nolenti, è diventato un riferimento capace di aggregare a livello globale. Di larga parte del cattolicesimo mondiale e di tanti partiti e movimenti laici democratici e della società civile. Lo apprezzano, lo citano e alla sua azione guardano i movimenti politici, sociali e indigeni del Brasile, dell’Argentina, della Bolivia e di tutto il continente latinoamericano; i Verdi e i movimenti ambientalisti europei; i democratici della Sinistra americana di Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez. A lui si relazionano Vandana Shiva e i movimenti che in India e nel resto dell'Asia si scontrano con un liberismo predatorio violento.
A lui guardano le nuove generazioni che in Africa tentano una via alternativa alla diffusione dell’islamismo terroristico e al devastante colonialismo delle transnazionali. È importante che questa rete globale di persone e di movimenti esista e si irrobustisca. Copre un vuoto lasciato da una (ex) Sinistra euro-occidentale, che ha rinunciato alla sua missione e ha interiorizzato nell’anima e nei programmi i dogmi del neoliberismo. Una rete che tenta di ricostruire un pensiero umanistico e sociale a livello globale, anche contro il neoliberismo capitalistico-comunista di Russia e Cina, regimi che nascono per “rappresentare il popolo” e che finiscono per costruire uno stato totalitario fondato sull’oppressione del popolo.
La tragica commedia americana che stiamo vivendo in diretta è la rappresentazione plastica della fine di questo paradigma che produce sfruttamento e guerra all’infinito. Tutti abbiamo gioito per la vittoria di Biden, è stato tolto il dito di un pazzo dai bottoni di una cabina di comando che potrebbe determinare un’apocalisse mondiale.
Trump è stato elettoralmente sconfitto, ma il trumpismo resta, e se oltre 70 milioni di americani hanno votato per lui, il problema non è Trump ma l’America. Trump ha normalizzato la follia come metodo di governo, ha sdoganato nella forma più volgare, brutale, violenta, illegale e radicale le contraddizioni del sistema americano.
Ma solo il cameriere di casa Agnelli, Maurizio Molinari, può vedere nel duo Biden – Starner (il nuovo segretario centrista del Partito Laburista inglese) i nuovi leader del progressismo mondiale. No, non sarà un Biden a spingere quelle trasformazioni radicali e necessarie per l’America e per il mondo, esponente organico e pluridecennale di quella aberrazione monopolistica del sistema bipartitico americano, fatto di consociativismo di fondo e di un approccio che in Italia definiremmo democristiano, affine ai centri di potere, siano essi l’apparato militare industriale o quello finanziario delle transnazionali. Specialmente se Trump confermerà la maggioranza al Senato. Né sarà Kamala Harris, una carriera professionale e politica ispirata a legge, ordine e Wall Street.
Il cambiamento dipenderà dal ruolo e dall’iniziativa della Sinistra di Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, che ha avuto una affermazione elettorale importante con la elezione di molti senatori e deputati. Dipenderà dall’iniziativa di quei movimenti, a partire da Black Lives Matter, le cui mobilitazioni hanno consentito la vittoria di Biden e che non hanno alcuna intenzione di smobilitare.
Per la Sinistra tradizionale, italiana ed europea in particolare, il non costruire un pensiero e una azione alternativa in questa fase storica è una occasione persa, una colpa grave e una pena. È una pena assistere alla deriva persino psicopatologica di interi gruppi dirigenti prigionieri della “sindrome di Stephen”.
In una delle ultime pellicole del geniale Quentin Tarantino, Django Unchained, un film sulla schiavitù, il bravissimo Samuel Jackson interpreta una figura emblematica, Stephen, maggiordomo nero del padrone bianco, Calvin Candie, impersonato da Leonardo DiCaprio.
Stephen è un maggiordomo che non solo odia la gente nera come lui, ma che si crede bianco. E in tempi in cui ai neri era proibito andare a cavallo, quando vede il protagonista nero del film a cavallo si infuria più dei suoi padroni bianchi. E quando il padrone lo invita a entrare gli urla “non vorrai far entrare questo negro nella nostra casa?”. Con genialità narrativa Tarantino non dà un cognome a Stephen, perché lui è convinto di appartenere alla famiglia Candie. Questa è la sindrome di Stephen, di tutti coloro che odiano quelli come lui e che difendono i privilegi della razza padrona, fino a interiorizzarne il punto di vista. Che oggi non ha il volto dello schiavista interpretato da DiCaprio, ma quello, sempre schiavistico, modernamente molto più violento e pervasivo, delle multinazionali del neoliberismo transnazionale, che costituiscono la minaccia più grande per il pianeta, per la dignità degli esseri umani, per la democrazia. ◘
di Luciano Neri