La generazione sacrificata

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Dossier. L'avventura educativa

silvia romano2

Questa non è l’epoca del covid-19

Con l’irrompere della pandemia si è instaurata l’abitudine di definire questo periodo l’epoca del covid-19. Il virus si prende la scena perché è un pericolo concreto che arriva direttamente lì dove sono le persone, cioè aggredisce qui e ora, cosicché tutti ridefiniscono atteggiamenti e comportamenti in funzione di questa minaccia, compresi quelli che la negano per la completa perdita del senso della realtà e della responsabilità verso gli altri.

Eppure non è certo la prima minaccia globale che ci investe. Da tempo siamo minacciati dagli sconvolgimenti sociali e ambientali dovuti a un sistema iniquo e disgregatore dell’intero sistema delle relazioni vitali. Eppure queste sfide strutturali non hanno visto seriamente riconosciuto il loro carattere epocale come invece succede con il virus.

Credo che ciò accada per una differenza di fondo: il disastro climatico e la devastazione della natura, l’iniquità economica e il degrado sociale, nonché la perversione politica che mette la vita dei popoli nelle mani di individui come Trump, Putin, Erdogan, al-Sisi, Orbán, Johnson o Salvini sono fenomeni percepiti come circoscritti, spesso riferibili alla situazione di altri e non a noi. Oppure, come nel caso del surriscaldamento climatico e delle sfide ambientali, si ritiene che si tratti di problemi procrastinabili per cui possiamo continuare a fare come abbiamo sempre fatto. Al contrario, il virus è un pericolo che si fa presente e pressante per me e per chi mi sta intorno, entrando nella miope visuale dell’individualista, quindi fa epoca. Quando il male colpiva solo i migranti, gli sfruttati, i deportati, i poveri, i senza dimora, i licenziati, non era un problema.

In effetti, un’epoca storica andrebbe definita per la sua tendenza di progresso reale, riferita dunque all’umanizzazione, alla democrazia, all’eguaglianza, alla giustizia, alla salvaguardia degli equilibri della natura, alla pace, così come faceva Giovanni XXIII quando leggeva i segni dei tempi, che erano tutte dinamiche di ampliamento della coscienza umana e di liberazione. Ispirati da tale consapevolezza, dovremmo agire per far nascere un’epoca di responsabilità solidale per il destino comune dell’umanità, un’epoca corale, per dirla con Aldo Capitini. Noi invece siamo inclini a interpretare il tempo storico secondo l’impulso - spesso contagiato dolosamente - dell’angoscia, del rancore, della rassegnazione, della disperazione e di quella nevrotica preoccupazione per se stessi da cui il Vangelo invita a distaccarsi. Come ha detto papa Francesco nell’intervista a “Vida Nueva” intitolata Piano per risorgere, “siamo immersi nel fatalismo”.

La condizione dei più giovani

Oggi tutte le categorie dei sacrificati stanno pagando il prezzo maggiore degli effetti della pandemia. Tra loro ci sono le nuove generazioni. Oggi chi è più piccolo o più giovane viene completamente misconosciuto. La sua condizione e i suoi diritti sono rimossi, le sue esigenze dimenticate e le persone che sono in questa stagione inaugurale della vita sono sacrificate. Questa convergenza di rimozione, dimenticanza e sacrificio indica che siamo in presenza di una tendenza dominativa divenuta automatica. E se è automatica vuol dire che è inscritta nella logica di funzionamento dei grandi sistemi del potere globale, a partire dal mercato a guida finanziaria e a trazione ideologica neoliberista.

Da questo punto di vista suona addirittura come un’eco di tempi migliori, in fondo più umani e molto lontani da noi, la domanda retorica di Gesù: “chi è quel padre fra di voi che, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O, se gli chiede un pesce, gli darà un serpente? Oppure, se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?” (Lc 11, 11-12). Intendeva dire che, per quanto malvagi, gli adulti sanno dare “buoni doni ai figli” (Lc 11, 13). Invece oggi spesso le generazioni che dovrebbero essere adulte - e comunque chi gestisce il potere - danno pietre, serpenti e scorpioni ai giovani e mentre lo fanno li rimproverano di non essere all’altezza della sfida dei tempi.

Così era prevedibile che, nel costruire risposte d’emergenza per fare fronte alla pandemia, i diritti, i bisogni e le aspirazioni delle nuove generazioni sarebbero state lasciate da parte. Su tre questioni soprattutto si vede la perpetuazione del meccanismo sacrificale a loro danno.

La prima è la diffusa mancanza di ascolto, di empatia, di rispetto, di prossimità e di disponibilità a tenere aperta la strada del cammino esistenziale di chi è piccolo o giovane. E questo salvaguardare l’originalità, la libertà, il presente e il futuro della generazione nuova è un compito che riguarda genitori e insegnanti, famiglie e istituzioni, comprese le istituzioni e le comunità religiose. Non avremo alcuna capacità di salvaguardia della società e della natura finché non ci renderemo disponibili a questa apertura che la Scrittura chiama “la conversione del cuore del padre verso i figli” (Ml 3, 24; Sir 48, 10; Lc 1, 17).

La seconda questione è quella della rigenerazione della scuola. La scelta di chiudere gli istituti scolastici di fatto è scaturita sia dall’imprevidenza che ha determinato la mancata riorganizzazione del sistema dei trasporti, sia dalla superficialità di ritenere la cosiddetta “didattica a distanza” un’alternativa adeguata, per alcuni persino migliore, rispetto alla normale vita scolastica, senza minimamente considerare che si tratta di una strana “didattica”, priva di relazione educativa. Se non si rigenera la scuola in senso educativo e umanizzante, è tutta la società a pagare il prezzo di questa incuria deliberata.

La terza questione, più complessiva, sta nella mancanza di pensiero, di immaginazione e di coraggio dei governi, in Europa e nel mondo, rispetto all’opportunità di avviare una diversa organizzazione del lavoro, dell’economia e del diritto al reddito minimo universale a fronte dell’impatto delle misure di contenimento necessarie per la sicurezza sanitaria. I giovani sono tra i primi sacrificati dal capitalismo contemporaneo e dalla finanziarizzazione del mondo che ha instaurato. Finché resta quel modello di economia, il presente è compromesso e il futuro precluso.

L’innovazione non viene dalla tecnologia, ma dalle generazioni nuove

La pandemia che stiamo affrontando ha fatto emergere quattro evidenze: a. l’interdipendenza che ci unisce, dunque l’universalità del legame tra gli esseri umani e con la natura; b. la fragilità innaturale di una società costruita su basi sbagliate; c. un’occasione per guardare la storia dal basso, dalla condizione dei sofferenti e dei sacrificati, sperimentando che non è mai il potere che salva; d. l’imporsi dell’urgenza di una svolta ispirata al senso di responsabilità solidale, di giustizia, di salvaguardia ecologica e di democrazia integrale.

Una svolta simile non si attua senza l’alleanza tra le generazioni. Un’alleanza che, se deve assicurare la cura educativa e la novità di chi è più piccolo, deve nel contempo riconoscere alla generazione nuova lo spazio e la capacità di rinnovare il volto della storia. Quanto è stolto illudersi sul fatto che sarà la tecnologia a risolvere ogni problema dell’umanità. Quella che viene detta “innovazione”, in ogni epoca, ha luogo sempre a condizione che i giovani, o almeno i più consapevoli tra loro, possano portare alla luce una forma inedita nel modo umano di abitare il mondo. Alla società della fragilità globale non serve la competitività, ma la generatività, non la flessibilità, ma la creatività, non la crescita, ma l’armonizzazione del sistema delle relazioni vitali.

Chiunque si metta in quest’ottica di liberazione, se avrà cura di farlo nel dialogo tra generazioni diverse, non tarderà a vedere le autentiche priorità della trasformazione della società e i modi per realizzarle. Solo per questa via l’epoca dell’epidemia potrà invece rivelarsi l’epoca della guarigione della società che credeva di essere un mercato e che per questo sacrificava le proprie figlie e i propri figli. ◘

di Roberto Mancini