Martedì, 12 Novembre 2024

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Ciascuno cresce solo se sognato

Dossier. L'avventura educativa

silvia romano2

“Prendono a calci e a sassate la porta di uno stabile ai giardini: otto minorenni denunciati”. È il titolo di un articolo nel giornale locale di qualche giorno fa. Episodi come questo non sono nulla di nuovo o di inaudito e spesso vengono letti come i sintomi più evidenti di un disagio diffuso tra gli adolescenti. Al di là di ciò che potremmo definire “fisiologico” per questa età della vita, infatti, la percezione è quella di trovarsi in un’epoca in cui la crisi tipica dell’età adolescenziale è in qualche modo “amplificata”, la società liquida in cui siamo immersi rischia di privare i giovanissimi di alcuni punti fermi, di riferimenti, aumenta l’incertezza e sicuramente amplifica le possibilità di vivere situazioni di disagio. Frequentemente si denuncia il dilagare fra i ragazzi di superficialità, passività, disinteresse verso le problematiche sociali e politiche dell’attualità, si denota la loro difficoltà a relazionarsi, la violenza che emerge attraverso numerosi casi di bullismo, il rischio dell’eccessivo utilizzo della rete e delle tecnologie, tutta una serie di problematiche che coinvolgono il mondo giovanile e che ci chiamano a una riflessione.

Per fortuna non ci si limita a disapprovare certi comportamenti, quasi venissero dal nulla, ma si riconoscono le responsabilità degli adulti, della società di cui questi giovani sono figli e non mancano senza dubbio analisi lucide di questi fenomeni, tentativi di comprenderli. Quello che a volte manca però, a mio modestissimo parere, è la pars construens. Come rispondere al disagio? Cosa facciamo concretamente, come adulti (insegnanti, educatori, genitori, politici anche), per prevenire certe situazioni e ancora prima per sostenere gli adolescenti nel loro percorso?

La mia percezione è che a non trovare spazio sia la cosa più importante: la voce dei ragazzi. Di fronte alle situazioni di disagio, violenza, sofferenza, così come rispetto alle “normali” questioni dell’adolescenza, quante volte invece di dare interpretazioni e vaticini, ci fermiamo davvero ad ascoltarli? A domandare: «perché hai preso a pugni il tuo compagno di classe? Perché tiri sassate alla sala del quartiere? Perché sei spinto a esagerare con le sostanze o bruci le tappe della tua vita sessuale?» o anche, semplicemente, «cosa vivi? Come ti senti? Di cosa hai bisogno?». Una tendenza degli adulti, infatti, sembra essere quella di considerare gli adolescenti come ancora troppo giovani per sapere cosa vogliono e cosa è giusto per sé, e al tempo stesso pretendere da loro una maturità che ancora non possono avere.

Lavoro con ragazzi dai 14 anni in su da un paio d’anni, un tempo piccolo per avere risposte e forse ancora piccolo è il tempo che mi separa dalla mia adolescenza per averla davvero compresa, anche se a volte tendo a immedesimarmi nel mio “ruolo” e scordarmi com’è stata. Frequentandoli quotidianamente (pandemia a parte!) mi accorgo di quanto sia faticoso mettersi nei loro panni, non arrivare a conclusioni affrettate, a giudizi sui loro atteggiamenti, non relazionarsi a loro come se dovessi “dirigerli”, né pretendere che siano adulti, già equilibrati e risolti (che poi anche da adulto, chi lo è davvero?). «Ecco una delle possibili immagini per definire l’adolescenza, – scriveva Françoise Dolto – un’età in cui l’essere umano non è né dio, né tavolo, né lavandino». Un’età di trasformazioni, cambiamenti, inquietudini, domande, scoperte, sommovimenti interiori ed esteriori, un’età in cui si è potenza e atto al tempo stesso. Questo può anche sfociare nel disagio, se tutte queste energie e fragilità non vengono vissute e affrontate serenamente, se nessuno ti accompagna, ti offre stimoli, ti ascolta.

Se guardo alla mia esperienza, sento di essere stata un’adolescente fortunata: sono cresciuta in un ambiente accogliente e stimolante, con adulti che davano valore ai miei pensieri e alle mie emozioni, che mi hanno aiutato ad accettarli e decifrarli, che mi hanno dato fiducia, spinto ad assumermi delle responsabilità, mi hanno aiutato a credere che la mia voce e il mio impegno fossero importanti, che aveva senso sognare e progettare la mia vita seguendo i miei desideri e le mie inclinazioni, offrendomi la possibilità di vivere tutto questo insieme ad altri. Non tutti i miei coetanei hanno avuto questa opportunità.

Ora lavoro coi giovani e, come dicevo, non sempre ne sono all’altezza. Quando però riesco a dare loro spazio e ascolto, mi arriva con forza tutta la loro ricchezza, li scopro enormemente capaci di creatività, di passione, di curiosità e di impegno. Forse è proprio qui il punto: non calare dall’alto risposte, ma cercare con loro le strade, renderli protagonisti della loro crescita. Mi piace in questo senso citare le parole di Mario Pollo: «il modo più concreto di dare fiducia ai giovani, oggi, è restituire loro quel protagonismo che la vita sociale nega loro. […] abilitare il giovane al protagonismo è il modo concreto che l’animatore ha a disposizione per manifestare la fiducia e, nello stesso tempo, per combattere quel disagio subdolo e nascosto che affligge molti giovani e che è – come dimostrano le stesse analisi sociologiche – generato dall’assenza di protagonismo degli stessi giovani nella vita sociale attuale».

Cosa significa protagonismo? Significa prima di tutto riconoscere il valore e l’unicità di ogni ragazzo: «l’adulto – scrive ancora Pollo –, pur non rinunciando al suo mondo, alle sue concezioni, alle sue visioni della vita e ai suoi valori deve essere in grado di accogliere ogni giovane, anche quello più lontano o «deviante» rispetto al suo mondo». Accoglienza che implica anche fiducia nelle potenzialità dell’adolescente, «convinzione che ogni giovane ha in sé, al di là della sua condizione momentanea, tutte le capacità necessarie per realizzare un progetto personale e sociale di vita pieno e ricco di senso». Il punto è proprio provare a relazionarsi coi giovani in un rapporto di reciprocità e apertura – che non elimina la distanza generazionale, ma se ne arricchisce in uno scambio proficuo – e tentare di costruire insieme a loro le attività e le progettualità che li riguardano. Spesso infatti, dicevamo, non vengono neanche interpellati: la scuola superiore rischia di rimanere ingabbiata nella logica dell’apprendimento volto solo a preparare al mondo del lavoro e fuori da essa, in molte delle nostre città, sono pochi gli spazi pensati per i giovani di questa fascia d’età. E invece bisognerebbe moltiplicarli: concepire e costruire luoghi che siano fulcro di socializzazione, confronto, proposte ed esperienze significative, luoghi dove sperimentare quella possibilità di convivenza e incontro con gli altri che favorisce la maturazione di una coscienza di sé e lo sviluppo di un “noi”.

Non c’è una ricetta da seguire passo passo, ma credo che quello che serva sia prima di tutto un cambiamento di postura: lavorare su noi stessi come adulti e metterci in gioco, essere disposti a rinunciare ai nostri schemi e provare a costruire un percorso insieme ai ragazzi. Impegnarsi in questa sfida educativa mi sembra l’unica strada possibile per contrastare le mille sfaccettature di quello che viene definito “disagio giovanile” e, in generale, per accompagnare ogni adolescente nel suo percorso di crescita. Fiducia, ascolto, possibilità di esprimersi e diventare sempre più se stessi, perché come scriveva Danilo Dolci nel suo verso più famoso: “ciascuno cresce solo se sognato”. ◘

di Ludovica Novelli


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