La grande periferia tifernate
Il sobborgo di Rignaldello in passato era l’unica propaggine del centro storico di Città di Castello verso sud. Tutt’intorno, solo campagna e qualche casa contadina. L’espansione urbanistica, nel dopoguerra, non poteva che proiettarsi verso oriente e settentrione, nella vasta campagna tra Riosecco, le Graticole e i colli di Belvedere e degli Zoccolanti. La valle infatti si restringe a ridosso della città e sia il Tevere sia le colline hanno permesso solo limitati insediamenti periferici a occidente e a meridione.
La nuova stazione e il 3 bis
Subito dopo l’ultima guerra, proprio la zona tra Rignaldello e il cimitero fu la prima a subire una estesa urbanizzazione. Anche con scelte azzeccate. La stazione ferroviaria venne trasferita da piazza Garibaldi al sito odierno. Inoltre, per liberare dal traffico Rignaldello, si costruì la variante della strada statale 3 bis, oggi viale Vittorio Emanuele Orlando. Infine la Fattoria Autonoma Tabacchi, il cui stabilimento intasava il centro urbano tra la Mattonata e Palazzo Vitelli alla Cannoniera, edificò in quest’area i suoi capannoni per la lavorazione del tabacco tropicale. Non erano proprio belle quelle gigantesche strutture industriali, ma significavano centinaia di posti di lavoro. Poi ci ha pensato Burri a riqualificarle nel modo migliore, anche paesaggisticamente.
Negli anni ’50 sorse quindi un quartiere periferico tra Rignaldello, la stazione ferroviaria e il “mitico” bar-ristorante “3 bis”, improvvidamente demolito nel 1971. Un quartiere ordinato, con strade ariose per gli standard dell’epoca e una armonica compenetrazione di case popolari e di edilizia residenziale. Poi, purtroppo, la costruzione dell’enorme edificio di sei piani all’imbocco di viale Carlo Liviero e la ricordata demolizione del “3 bis”, sostituito da un brutto fabbricato, ne hanno inevitabilmente stravolto la fisionomia.
Quest’area periferica ha da subito acquisito una sua forte identità, ancora fortemente sentita da chi ci è nato e ci ha trascorso gli anni della giovinezza. Ha sempre pullulato di vita, con diverse botteghe, bar frequentatissimi, il primo ambulatorio dell’INAM. Un certo via vai lo garantiva la pur modesta linea ferroviaria. Lungo la variante della strada statale si situarono l’una accanto all’altra le sedi di un albergo, dell’asilo dell’ONMI e della caserma dei carabinieri. E non si poteva sentire la lontananza di un centro storico che era a quattro passi. Insomma, tutti i vantaggi dell’ariosità e della vivibilità della periferia e un solido cordone ombelicale con la città vecchia. I problemi più seri erano il traffico pesante sulla statale (dagli anni '80 finalmente dirottato sulla E45) e il torrente Scatorbia ridotto a fogna (i lavori di copertura ebbero inizio nel 1969).
Oggigiorno il quartiere si mantiene dinamico e vivibile, con diversi esercizi commerciali. L’interscambio con il centro storico è continuo e fecondo, anche per la vicinanza e la facilità di accesso. Fa però tristezza quella stazione semi-abbandonata. Nel 1946 un periodico locale si lasciò prendere dall’entusiasmo e scrisse che Città di Castello sarebbe diventata da un punto di vista ferroviario l’ “ombelico” d’Italia. Scrisse davvero così…
La Casella
Poco più giù, a meridione, c’è la Casella, un insediamento ben più piccolo, ma anche più problematico. Nel 1960 un giornalista tifernate denunciò che la zona residenziale tra la Casella e il convento degli Zoccolanti era “lasciata a se stessa”. Sviluppatasi quindi senza alcuna progettazione urbanistica, la Casella è ora un nucleo periferico in sé tranquillo, però segnato da quella strada statale che l’attraversa e che, pur senza il traffico di mezzi pesanti di un tempo, mantiene una evidente pericolosità. Ci dicono dei residenti: “Purtroppo nel corso degli anni sono morte almeno quattro persone su quella strada. Anche oggi si segnalano incidenti per fortuna non mortali. Ma anche parlando con i negozianti c’è paura. Da un lato c’è un bel marciapiede largo mentre da un altro la via per i pedoni è abbastanza stretta. Per attraversare la strada bisogna attendere che non ci siano macchine nemmeno in lontananza e pregare San Pasquale”. Tanto per intenderci, San Pasquale Baylon è il santo venerato nella parrocchia del quartiere, al convento degli Zoccolanti.
Proprio l’annuale festa di San Pasquale, con i tradizionali fuochi d’artificio (in assoluto i più belli nel nostro territorio), il Carnevale dedicato al suo tradizionale “re” tifernate (si chiama Dodone) e il campo di calcio di quartiere costituiscono i principali momenti di aggregazione della piccola e tranquilla comunità della Casella. Tuttavia, trattandosi di una periferia, resta irrisolto il problema focale del collegamento con il centro storico, comune del resto ad altri quartieri come Montedoro, Madonna del Latte e Tina-Salaiolo. La mancanza di un percorso ciclo-pedonale sicuro e gradevole fa apparire il centro tifernate ancora più lontano di quello che è.
I Pesci d'oro
Dalla metà degli anni ’50 sono entrati nell’uso comune i toponimi “Pesci d'oro" e “Villaggio musicale”. Individuano il nucleo periferico sorto a monte della strada Cortonese, dopo il ponte sul Tevere. “Pesci d'oro” è un termine antico; l’ho trovato anche in documenti di inizio ‘800. L’espressione "Villaggio musicale" nacque spontaneamente, perché le vie furono intitolate ai grandi musicisti Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi e Gaetano Donizetti. Il quartiere si sviluppò a partire dal 1952, quando vennero venduti i lotti edificabili. Si vide con grande favore, lì come altrove, l’iniziativa dei privati che nel dopoguerra si costruivano le proprie abitazioni fuori del centro storico: contribuiva a risolvere sia il problema della carenza di alloggi, sia quello della disoccupazione. Scrisse il periodico socialista “La rivendicazione”: «Chi fa merita elogio, e soprattutto deve avere imitatori. La maggiore necessità di Città di Castello è quella di avere nuove case, mentre c’è la disoccupazione fra gli edili». Ovviamente, lì come altrove, ci si pose assai poco la questione della progettazione urbanistica.
Nella seconda metà degli anni ’50, nell’area pianeggiante tra i Pesci d'oro e il Tevere trovarono sede il Foro Boario e il nuovo stabilimento del Mattatoio. Il mercato del bestiame era, all’epoca, un evento commerciale rilevante, dal momento che predominavano ancora l’agricoltura e l’allevamento. La Cassa di Risparmio vi costruì addirittura una sua filiale. Nei pressi sorsero pure delle apprezzabili attività artigianali e, con lo Scatolificio FISA, pure industriali. Si trattava quindi di un’area periferica, ancorché “strozzata” tra le alture e il Tevere, dinamica e operosa.
Che resta ora? Non c’è più il mercato del bestiame, ovviamente. Però se ne sono andate anche le attività commerciali che gli ruotavano intorno. Le rimanenti – ci dicono i residenti – hanno una vita stentata o, comunque, non sono poli di aggregazione. Mancano significativi luoghi di incontro per una comunità ramificata in un’area non uniforme. La zona sta dunque diventando un piccolo quartiere dormitorio. Da un lato anche qui l’associazione rionale cerca di dare una identità, per lo meno con iniziative ricreative. Dall’altro la vivibilità della zona è seriamente compromessa dalla questione viaria, forse inimmaginabile quando il quartiere si formò spontaneamente poco più di 60 anni fa. Lo solca, e per certi versi lo divide, la transitatissima strada provinciale per Trestina; e anche qui, purtroppo, manca un percorso ciclo-pedonale che la colleghi al vicinissimo centro storico.
Si dirà che certe cose, considerata la prosaica situazione urbanistica esistente, sono facili a dirsi e difficili a farsi. Può essere vero. Tuttavia la “buona” politica e la “brava” urbanistica sono riuscite a stravolgere in positivo il volto di ambienti ben più difficili dei nostri. In genere ciò avviene dove le comunità locali premono affinché certi problemi siano risolti. Invece, qui a Città di Castello, con una partecipazione popolare che latita e una politica che, come altrove, si è chiusa nel “palazzo”, sembra proprio che ci si accontenti troppo di quel che passa il convento. ◘
di Alvaro Tacchini