Pochi mesi dopo il mio arrivo a Niamey, Niger, nell’aprile del 2011, c’è stata la drammatica caduta del regime di Mouammar Kadhafi in Libia. La regione sahelo-sahariana, già nel passato attraversata da conflitti armati, forme di jihad, liquidazione degli Stati e il congiungersi di molteplici interessi è la zona nella quale il terrorismo ‘islamico’ si è intensificato. Questa regione è considerata strategica per le materie prime di cui dispone e per la sua collocazione nella ‘lotta globale’ contro il terrorismo. Gli Stati saheliani, attori regionali e internazionali collaborano, talvolta con priorità non coincidenti, per sradicare la minaccia terrorista e mantenere la sicurezza regionale nella prospettiva di una sicurezza ‘globale.
Alle sorgenti del terrorismo sahara- saheliano
Tra il 2015 e il 2020 gli attacchi terroristi si sono intensificati in tutto il Sahel. Ciò ha comportato migliaia di perdite di vite umane, esodi di popolazione, crisi alimentari in zone fragili dal punto di vista climatico. Questo non è stato casuale. Dopo la caduta del regime libico nel 2011, la regione è stata destabilizzata con afflusso di armi e mercenari prima ‘assunti’ dal regime di Gheddafi (Kadhafi). Ciò non deve, peraltro, far dimenticare la presa di ostaggi fin dal 2003 nel Sahara algerino a opera del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC). Da allora, dalla Mauritania al Ciad, si sono registrati una ventina di sequestri di ostaggi, di assassinii e attacchi. Dieci turisti e operatori umanitari occidentali e almeno 55 tra militari e poliziotti sono stati uccisi. Inoltre non c’è da dimenticare la crisi nel Mali, la ribellione tuareg e il colpo di Stato del 2012, che hanno messo il Paese in una situazione caotica aggravato dall’intervento francese del 2013.
Il degrado della sovranità nazionale nella zona ha favorito l’espansione del terrorismo e lo sviluppo di traffici internazionali illeciti, la criminalità transfrontaliera, l’estremismo violento che già esistevano. Ciò ha avuto conseguenze e un ruolo di detonatore per conflitti locali latenti a carattere comunitarista. La circolazione di armi, droga e la tratta di persone (usando i migranti le stesse ‘rotte’ dei trafficanti), assieme alla crescita del radicalismo religioso/salafita armato, grazie anche agli aiuti dei Paesi del Golfo, costituiscono una stessa e inseparabile dinamica nella crescita del terrorismo nel Sahel.
Ciò è favorito dagli immensi spazi degli Stati saheliani che costeggiano il deserto del Sahara. In effetti, a parte il Burkina Faso, i principali stati delle regione saheliana passano il milione di chilometri quadrati. Il Niger, il Mali, il Ciad, la Mauritania e l’Algeria, per le loro dimensioni in zone desertiche, rendono difficile il controllo delle frontiere. La capacità di affrontare con coerenza le sfide del terrorismo è ridotta se non completamente nulla.
A parte l’Algeria, gli altri Stati sono caratterizzati da debolezze istituzionali e minati da una corruzione endemica che favorisce l’influenza dei gruppi terroristi. Questi ultimi hanno buon gioco nel reclutare giovani le cui prospettive di futuro e di identità sociale sono inesistenti. Questi fattori contribuiscono alla crescita del fondamentalismo islamista che prospera nella zona, vero e proprio ‘Eldorado’ per portare a compimento attività criminali/jihadiste/insurrezionali.
Il mosaico delle organizzazioni terroriste del Sahel
I Gruppi Armati Terroristi (GAT) che operano nella fascia del Sahel sono una moltitudine. Non tutti hanno la stessa notorietà. Tuttavia alcuni atti terroristi sono delegati tra gruppi, tramite mercenari o ‘subappaltati’, ad esempio il sequestro di ostaggi, ad altri gruppi. Grazie soprattutto alle rivendicazioni si possono citare sei principali organizzazioni terroristiche:
. Al- Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI)
. Il Movimento per l’Unicità del Djihad in Africa (MUJAO
. Lo Stato Islamico nel Grande Sahara (EIGS)
. La Provincia per l’Africa dell’Ovest dello stato Islamico (PAOEI)
. La setta Boko Haram
. Il gruppo Ansar Eddine
Questi ultimi sono affiliati all’Organizzazione dello Stato Islamico (OEI) e Al-Qaeda.
Gli attacchi terroristici avvengono principalmente in due zone: la regione del lago Ciad (Tchad) e quella delle tre frontiere (il Liptako- Gourma) tra Mali, Burkina Faso e Niger. La zona del Lago, situata tra 4 paesi limitrofi, per la sua configurazione, importanza strategica e conformazione, è un luogo privilegiato di azioni e radicamento del gruppo terrorista Boko Haram formatosi nel vicino Stato nigeriano del Borno. Nella zona opera anche un gruppo dissidente di Boko Haram, affiliato allo Stato Islamico. Quanto alla zona citata del Liptako-Gourma, le 3 frontiere, è considerata oggi la principale zona di intervento delle organizzazioni terroriste operanti nel Sahel. Quest’ultimo si è trasformato in un’area dove in alcune zone del territorio vige il terrore, il vuoto lasciato da popolazioni in fuga, le sofferenze della gente comune e la politica della ‘terra bruciata’ che favorisce traffici di ogni genere.
L’approccio multidimensionale delle risposte al terrorismo
La cooperazione internazionale ha avuto inizio a seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, con la ‘guerra globale contro il terrorismo’, promossa dagli USA. Uno degli assi portanti di questa ‘guerra’ (senza fine?) toccava il Maghreb et il Sahel, visto che una parte dei combattenti di Al-Qaida erano originari di queste zone. Nel 2002 ha visto la luce l’iniziativa ‘Pan Sahel’ che si trasformerà nel 2005 nella ‘Trans-Saharan Counter Terrorism Parterschip’ composta da Ciad, Mali, Mauritania, Niger, Marocco, Tunisia, Nigeria, Burkina Faso e Senegal.
A parte gli Stati Uniti sarà l’ONU che si presenterà come un altro attore maggiore nell’ambito della pace e della sicurezza nel Sahel.
La crisi del Mali del 2012, in seguito alla ribellione tuareg e al colpo di stato successivo, ha creato una ‘fenditura’ particolarmente inquietante nel cuore del Sahel, oltre la già citata crisi libica dell’anno precedente. Queste ‘brecce’ nel tessuto saheliano hanno favorito la nascita dei vari Gruppi Armati Terroristi oltre che nel Mali, nei vicini Burkina Faso e Niger.
Per contrastare l’insediamento e l’azione di questi gruppi è stata creata la MINUSMA (Missione Multidimensionale Integrata delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione del Mali) nel 2013. Essa, seppur ha la sua base nel Mali, collabora con l’Unione Africana e la CEDEAO (gli Stati dell’Africa Occidentale).
Anche la Francia, di cui il Sahel, per motivi storici legati alla colonizzazione, è uno spazio vitale, è intervenuta con l’operazione Serval nel 2013 nel Mali, per contrarre l’avanzata dei gruppi armati, poi sostituita dall’operazione Barkhane, basata nel Tchad. La Francia è egualmente un partner essenziale nel recentemente nato G5 Sahel, altra coalizione dei Paesi del Sahel contro l’avanzata terrorista.
Altri attori internazionali giocano, in questo stesso contesto, un ruolo subalterno come ad esempio l’Italia, la Germania, l’Unione Europea, il Canada e, da non molto, la Russia. Di questi ultimi mesi la nascita dell’operazione Takouba, composta da militari europei, con lo stesso obiettivo e in coordinamento con l’operazione Barkhane e il G5 Sahel. Il tutto con l’adesione degli Stati.
Le ambiguità e le prospettive
Malgrado gli sforzi e i tentativi sopra elencati la situazione della sicurezza nel Sahel è peggiorata. Nel 2020 si sono registrati oltre 4.750 mila morti, un 60% in più del 2019. Gli sfollati e i profughi si contano ormai a milioni (esattamente 2, secondo le Nazioni Unite in un recente rapporto). I fattori che rendono inefficace gli sforzi forniti dalle varie ‘alleanze’ sono molteplici.
Una delle difficoltà principali è legata alla presenza delle truppe straniere nella regione. Da tempo l’opinione pubblica percepisce negativamente questa presenza, ritenuta ‘neocoloniale’, in particolare per la Francia e gli Stati Uniti. Essa è letta come un tradimento della sovranità nazionale, ancora più evidente in Stati ‘fragili’, di ‘sabbia’.
La questione del finanziamento delle operazioni rimane una delle difficoltà maggiori contro il terrorismo nel Sahel. Nessuno degli Stati della regione aveva conosciuto questo tipo di guerre ‘asimmetriche’. Per contro l’autonomia finanziaria dei GAT (riscatti, traffici di ogni tipo, rapimenti di occidentali, mercenari, tasse locali e attività commerciali, come ad esempio sull’oro nelle regione), prospera indisturbata.
Prospettive
Potrebbero essere riassunte in 6 indicazioni di percorso:
1.Rendere l’educazione effettiva e inclusiva. Molti giovani reclutati dai GAT hanno poca o nessuna istruzione.
2.Ridare allo Stato lo statuto che gli compete in ordine al bene comune e anzitutto tornare allo ‘Stato di diritto’. I GAT si nutrono dei fondi utilizzati per altri fini, la corruzione e soprattutto l’ingiustizia sociale.
3.Formazione delle forze armate a questo tipo di conflitti armati nel rispetto dei diritti umani.
4.Rivisitazione della religione islamica per contrastare interpretazioni fanatiche e ideologiche funzionali al potere di dominazione e alla violenza.
5) Instaurare un clima di dialogo a vari livelli :
- nazionale affinché i governi e il popolo possano intendersi sulla presenza delle truppe straniere nel Sahel
- regionale, rendere più consistente la collaborazione tra i vari paesi interessati al fenomeno
- internazionale, dove le grandi istanze di decisione dovrebbero mettersi all’ascolto delle realtà locali.
- classe intellettuale per meglio discernere i meccanismi in atto.
6.Inventare, con la società civile, luoghi e spazi per il ‘politico’, inteso come luogo di riprogettazione e ricostruzione di un altro ‘immaginario’ sociale. Questo implicherà un vasto ‘cantiere sociale’con i poveri, i senza potere, voce e volto perché si possa ripartire da loro per ricreare ambiti di società nei quali il bene comune e il vivere assieme ritornino all’ordine del giorno. ◘
Di Mauro Armanino