Con Mostafa El Ayoubi, giornalista e analista politico, parliamo del jihadismo in Africa, del ruolo degli Usa, dell’Arabia Saudita e dell’Europa.
Il terrorismo dell’Isis si è trasferito in Africa nella zona sub sahariana. Quali sono le sue caratteristiche?
Prima dell’Isis è stata al Qaeda a prendere piede nella zona del Sahel per poi diffondersi in altri paesi dell’Africa nera. Jihadisti legati ad al Qaeda, dopo la lunga guerra contro l’esercito in Algeria negli anni Novanta, si sono ritirati nelle larghe aree incontrollate del Sahel, formando così il gruppo al Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM), che ha attecchito nel deserto algerino e anche in paesi confinanti come il Mali, negli anni 2000. Oltre a cercare di destabilizzare i regimi nordafricani con attentati sanguinosi, l’AQIM ha sempre avuto l’obiettivo di diffondere una visione islamista estremista nei paesi musulmani come il Mali, il Ciad e il Niger. Lo stesso vale per il suo derivato, il Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale.
Nato in Iraq e Siria nel 2014, l’Isis, dopo il suo declino in Medio Oriente, si è rifugiato in Africa, in particolare in Libia, precedentemente distrutta dalla Nato nel 2011, per poi diffondersi nel Ciad, nel Niger e nel Mali. Ciò che caratterizza i gruppi jihadisti legati ad al Qaeda e all’Isis, due realtà che hanno molti punti ideologici in comune, è il fatto che hanno una matrice araba. Al contrario, il gruppo di Boko Haram è nato del Nord della Nigeria, da predicatori locali che hanno sfruttato il grave disagio economico-sociale per diffondere la loro ideologia jihadista come riscatto contro l’esclusione sociale dei diseredati.
Quali sono gli aspetti sociali e politici di questo fenomeno e quali le radici all’interno della società?
L’esplosione del terrorismo nel Sahel è in gran parte legata allo sciagurato intervento della Nato in Libia. Questo potente organismo militare ha usato jihadisti di al Qaeda per far fuori il laico Gheddafi, il quale aveva sempre fatto della lotta al terrorismo islamista un suo chiodo fisso, come anche l’interventismo occidentale in Africa. E ciò gli è costato la vita. La Libia, prima della distruzione del suo Stato, dava lavoro a circa due milioni di immigrati, in gran parte africani, e le loro rimesse monetarie erano importanti per le loro famiglie e i loro Paesi. Quando sono venute a mancare queste risorse, la povertà che caratterizzava i Paese del Sahel è aumentata a dismisura. E per necessità molti giovani sono diventati manodopera di al Qaeda e dell’Isis. Quindi la povertà è stata un fattore determinante nella proliferazione dei gruppi jihadisti in questa regione. L’altro fattore, di ordine politico, è la totale instabilità dell’apparato statale in paesi come il Mali, il Niger e il Ciad. I governi sono sotto il controllo dei paesi coloniali e neocoloniali, quindi corrotti. Il terrorismo è utilizzato dalle potenze coloniali come cavallo di Troia per consolidare la loro presenza militare per ragioni geo-economiche e geo-strategiche. La Francia ha bisogno dell’uranio del Niger, pagato a prezzo irrisorio, per l’energia nucleare indispensabile per l’economia transalpina. Politicamente e geopoliticamente la presenza dei jihadisti è funzionale agli interessi dell’Occidente in Africa.
Quali sarebbero a suo parere i finanziatori esterni che sostengono il terrorismo? Con quali obiettivi?
Sono diversi i canali di finanziamento dei gruppi estremisti che operano nel Sahel. Il contrabbando di petrolio proveniente dalla Libia è uno di quelli. Lo sono anche i riscatti frutto dei sequestri di persona, in particolare di occidentali. Tuttavia la fonte principale del denaro per i gruppi terroristi è il traffico di droga. A partire dagli anni 2000 questa regione si è trasformata in una nuova rotta di transito della droga proveniente dal Sud America e destinata all’Europa attraverso i paesi nordafricani.
È noto ormai il legame tra il movimento Al Qaeda nel Maghreb islamico e quello dell’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale - rinominato al Mourabitoun - con la criminalità organizzata. Lo stesso vale per Boko Haram.
I vari gruppi che formano la galassia del jihadismo in Africa sono spesso in conflitto tra di loro. Inoltre alcuni vengono finanziati e quindi utilizzati per scopi geo-militari da parte di paesi occidentali o della Nato. Ad esempio, il Gruppo dei Combattenti Islamisti Libici, con l’appoggio dei servizi segreti francesi, è riuscito a trovare Gheddafi ed ammazzarlo.
Parte dei finanziamenti del terrorismo in Africa proviene dai Paesi arabi del Golfo, in particolare dall’Arabia Saudita, alleato di fiducia della Nato. La maggior parte dei gruppi islamisti fanno riferimento al salafismo radicale predicato dal regime saudita.
Quale rapporto esiste tra l’Islam classico e il salafismo esportato nei paesi sub sahariani?
Nessun rapporto strutturale. Nel continente africano per secoli la religione islamica ha sempre vissuto in armonia con l’animismo e la religione cristiana in generale,
tant’è vero che ancora oggi convivono nella stessa famiglia allargata animisti, cristiani e musulmani. L’islam africano è sempre stato caratterizzato e distinto per il suo vissuto mistico sufi, moderato e rispettoso delle altre fedi.
L’islam radicale tornato alla ribalta nel secolo scorso, specie quello salafita, non tollera questo islam africano, perché considera il sufismo una eresia. Nell’ultimo decennio diversi santuari islamici mistici sono stati distrutti. La culla del salafismo è l’Arabia saudita. Il salafismo è una dottrina che si basa su una interpretazione letterale e anacronistica del Corano. E chiunque non rispetti questa visione è un infedele che merita la morte. Con i sui petrodollari, l’Arabia Saudita oggi costruisce moschee e forma i predicatori africani al jihad militare. Tutto ciò sta completamente stravolgendo la secolare convivenza tra l’islam e le altre religioni del continente.
Quali sono le responsabilità dell’Europa che non è capace di contrastare il terrorismo e che invece si è dedicata a vendere armi a tutti i contendenti sulla scena internazionale?
Per le grandi potenze europee il problema non è contrastare il terrorismo ma piuttosto gestirlo e controllarlo.
Negli ultimi cinquant’anni, il terrorismo è diventato la quinta colonna delle guerre a livello planetario. Gli Usa hanno utilizzato i movimenti terroristici in America Latina per destabilizzare governi considerati nemici, come nel caso del Nicaragua, dove per tanti anni i Contras avevano terrorizzato il Paese con l’appoggio dell’amministrazione di Reagan. Lo stesso è avvenuto in Asia, ad esempio con il sostegno di Washington ai famigerati Mujaheddin in Afghanistan negli anni ‘80. Lo scopo fu quello di far cadere il governo socialista legato ai sovietici. In quel contesto nacque al Qaeda. I sauditi – d’accordo con gli americani – reclutavano giovani arabi diseredati per mandarli a Kabul a “combattere in nome di Allah”.
I paesi europei, la cui politica internazionale (e anche quella interna) è sempre stata subordinata a quella di Washington, hanno sposato in toto il modello americano riguardo all’uso del terrorismo. Nella guerra contro la Siria molti sono partiti da diverse città europee per dare man forte alla galassia di jihadisti che ha devastato questo Paese. E anche in questo caso l’Arabia Saudita ha dato un grande contributo alla nascita di al Qaeda e di Daesh.
Ormai nemmeno gli americani nascondono il connubio dei sauditi con Daesh, al Nousra e altri gruppi terroristi. Nell’ottobre 2014 l’allora vicepresidente americano Jo Biden, in un incontro con gli studenti dell’Università di Harvard, aveva affermato che i sauditi fornivano alle milizie jihadiste enormi quantità di armi e di denaro.
Il terrorismo è uno strumento bellico in mano alle grandi potenze occidentali. La cosiddetta “lotta al terrorismo” non è altro che una retorica che serve per limitare ulteriormente le libertà individuali e collettive.
L’Europa vuole eliminare il terrorismo? Allora deve andare alla radice di questo flagello, ovvero l’Arabia Saudita e chiudere completamente i suoi rapporti con questo Paese. Cosa che non farà mai finché resterà dipendente dagli Stati Uniti d’America. ◘
Di Achille Rossi