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Luca Bregolisse, il Brego, da giovane frequentava i centri sociali, indossava la kefiah rossa, scriveva ACAB sui muri. A quarant’anni vive con la moglie, una figlia piccola, il padre ex comunista che ha votato la mozione Occhetto, mentre la madre morta gli si è appiccicata come una figurina Panini in un lato della testa per ricordargli ciò che è giusto o sbagliato. Ha un’impresa da imbianchino, un dipendente marocchino che va fuori di testa quando il figlio che spaccia sparisce, se può lavora in nero. Ha anche un amico del cuore, il Tordo, giocatore seriale alle macchinette mangiasoldi. Gira con un Doblò. Una vita da poco, complicata dai soldi che non bastano mai, che si complica ulteriormente quando “Massimino”, il figlio di Nabil, torna a casa con la faccia gonfia di botte prese in Questura, poi fugge da casa e Nabil scappa dal lavoro per cercare il figlio. Il Tordo si schianta contro un pino nella strada che porta al cimitero, nello stesso punto nel quale giorni prima, triste presagio di tutta la storia, aveva investito e ucciso un tasso.
E il Brego deve pensare a loro e al lavoro da finire, e a se stesso. E le parole dette sono sempre le stesse, e le situazioni pure. Anche le strade da percorrere sono sempre le stesse. Perché in una città come Perugia, che una volta era rossa se eri di Sinistra, oggi senza le feste dell’Unità, le riunioni in sezione, il centro sociale o la Casa del popolo, le manifestazioni, il ritrovarsi tra compagni e compagne, che altro puoi fare se non girare intorno, in un eterno ritorno, alle stesse cose?
In provincia, se sei uno sfigato uomo qualunque, sempre le stesse cose ti trovi a fare, le stesse frustrazioni a vivere, gli stessi pensieri a vivere e pensare. Una vita da poco come tante, con i problemi di tanti che l’autore fa raccontare al Brego con un monologo interiore che si dipana per sedici giorni attraverso una Perugia che non è quella degli studenti, della Fontana Maggiore, di Umbria jazz, del Festival del Giornalismo, dei Baci Perugina, ma una città che pare “un cristiano stremato dagli anni”, tra sfigati ex comunisti, mogli stanche, marocchini con figli spacciatori. Dove i morti non muoiono ammazzati come nei gialli, ma pongono fine ai loro “giorni infelici sulla Terra” andando a schiantarsi in auto contro un albero.
Quello di Dozzini è un ritratto impietoso di una ex città rossa, dove il tessuto sociale è esploso e chi votava falce e martello oggi vota la destra razzista e xenofoba, nella speranza che tutto torni come un tempo quando pare si vivesse meglio. Narrata senza retorica e senza remore, l’immagine di quello che oggi sono la provincia italiana e i suoi abitanti. Una Perugia in cui superato il cimitero, “il cielo è grigio sulla città”, che ha dimenticato cos’era per diventare quello che forse è sempre stata: chiusa, indifferente, gretta. Piombata in una deprivazione sentimentale che non consente alibi e induce a chiedersi non come abbia fatto a diventare leghista, ma come facesse a essere di Sinistra.
Spesso c’è più verità nella narrativa che in molti saggi; lo conferma anche questo ritratto cupo e impietoso di una città (metafora di un’intera regione, l’Umbria, e non solo di essa) che Giovanni dimostra d’aver osservato e conoscere fin nelle sue profondità: non a caso l’unica che, a differenza di quanto avvenuto in Emilia e in Toscana, non ha retto l’assalto leghista ma a esso si è completamente abbandonata. Abitata da perugini che tra una festa dell’Unità e l’altra votavano Pci e ora sono diventati leghisti o chissà cos’altro. Qui dovevo stare è un romanzo che non segue mode editoriali e i gusti del momento, ma il bisogno di raccontare la parabola di un mondo non facendo sconti a nessuno. Né ai personaggi né a chi legge, e nemmeno a Perugia, descritta non per quello che i perugini si illudono sia, ma per quello che è, e siccome le città le fanno le donne e gli uomini che ci sono vissuti, ci vivono e ci vivranno, per quello che i perugini sono ora e forse sono sempre stati.
Una storia che finisce, come non poteva che finire, in questo mondo storto nel quale Brego e gli altri si sono trovati a passare. Cosa che fa di Qui dovevo stare un libro vero, politico, realista. E molto bello. Per niente “ruffiano” verso il lettore, scomodo e a tratti duro; di quelli che ti scavano dentro, che può far male leggere e per questo necessari. In quarta di copertina c’è scritto “Servirebbe meno dolore e servirebbe meno paura”. È vero, servirebbero meno dolore e meno paura, ma, per arrivarci, il dolore e la paura devono essere attraversati fino in fondo. Con questo libro, sul quale una volta terminata la lettura si continua a rimuginare, come se le pagine appena lette ti si fossero appiccicate addosso alla stessa maniera della figurina della mamma alla testa di Brego, Giovanni Dozzini, scegliendo tra l’altro il registro più arduo per chi legge (il monologo interiore), dimostra d’essere stato comunque in grado di mantenere la giusta distanza dalla vicenda narrata e un costante necessario controllo sul testo, d’aver acquisito consapevolezza dei propri mezzi e sancito la sua definitiva maturità di scrittore. ◘
Di Vanni Capoccia