Venerdì, 04 Ottobre 2024

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Verso una economia civile

Globalizzazione. Intervista a Massimo Mercati, Amministratore delegato di Aboca

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Aboca ha ormai superato il suo quarantesimo compleanno. L’azienda in questo mezzo secolo ha percorso un cammino illuminato dalla consapevolezza che ogni azione umana non può fare a meno di rapportarsi con la natura. Avete scelto da subito di mettere in relazione agricoltura e salute. Cosa ha significato tale scelta?

«Certamente il fatto di aver lavorato per oltre 40 anni cercando nelle piante medicinali e nella natura risposte per la salute dell’uomo nell’ottica di rispettare uomo e ambiente è un punto fondamentale della nostra filosofia d’azienda. Il collegamento tra agricoltura e salute emerge nella sua essenzialità sia perché le coltivazioni diventano per noi i bioreattori in cui sviluppiamo le nostre sostanze complesse, sia perché ci ha consentito di comprendere a fondo come la salute dell’uomo non possa essere distinta da quella dell’ambiente in cui vive. È il concetto emergente di One Health, da anni promosso con poco successo dall’Onu, ed è coerente con il messaggio di Papa Francesco: “non possiamo pensare di vivere sani in un pianeta malato”. Da questa prospettiva l’agricoltura diventa il punto di partenza perché è da essa che traiamo non solo le medicine che noi produciamo, ma prima di tutto il cibo che ci sostenta. Se però la produzione di cibo è fatta con l’utilizzo estensivo e spesso improprio di sostanze tossiche non biodegradabili è evidente la contraddizione in termini. L’agricoltura che dovrebbe farci vivere diventa una delle prime cause di un inquinamento ambientale spesso irreversibile e ci pone quindi di fronte all’evidenza della necessità del cambiamento. Per questo servono un nuovo sistema produttivo e una nuova visione del rapporto fra uomo e natura».

Nel volume fresco di stampa, L’impresa come sistema vivente, Lei illustra i principi che vi hanno guidato nell’organizzazione e nella gestione della vostra impresa, intesa «come sistema vivente». Quali riflessi ha avuto tale acquisizione teorica nella organizzazione della vostra azienda?

«Aboca da sempre ha perseguito la cura con prodotti 100% naturali, basandosi sull’intuizione che tutti, uomini, piante, animali, parlano lo stesso linguaggio, condividono genetica e schemi metabolici. Per questo abbiamo sempre rifiutato l’utilizzo di sostanze di sintesi, sia nelle coltivazioni che nella produzione, e da sempre abbiamo cercato di lavorare con sostanze non raffinate, ma capaci di conservare la complessità del vivente.

È stato però l’incontro con Fritjof Capra e con gli scienziati dello Schumacher College ad aprirci la strada verso la comprensione dei fondamenti scientifici di tale scelta. La teoria della complessità, infatti, spiega che l’affermazione per cui il tutto è più delle sue parti, non è una opinione alternativa da confinare nell’olismo mistico, ma una verità scientifica che affonda le sue radici nell’organizzazione a rete che contraddistingue tutti i sistemi viventi. In natura non esistono parti isolate, tutto è connesso e risponde ai principi propri dell’autorganizzazione delle reti, per cui dall’unione di più parti derivano proprietà emergenti non riconducibili alla loro somma. Esse, a loro volta, seguono regole proprie dei sistemi complessi, che oggi sono alla base delle più avanzate teorie scientifiche come quelle della “System Biology e della System Medicine”. Per questo a livello di ricerca questo nuovo paradigma è stato per noi determinante. Ma non solo, lo stesso schema può e deve essere trasferito alle organizzazioni sociali, come i partiti politici o le imprese. Nel dominio sociale però non vigono regole biologiche ma culturali, è la cultura quella che tiene insieme una rete sociale che potrà dirsi tale solo quando i suoi membri ne avranno condiviso il significato che ne determina i limiti. Ecco allora che per avere un’impresa la prima domanda sarà chiedersi chi siamo e scoprire i valori che tengono insieme la nostra organizzazione. Dalla conoscenza dei meccanismi di rete passano poi nuove logiche gestionali, capaci a mio avviso di rendere molto più efficace l’azione collettiva e che sono molto diverse dai meccanismi formali di regolazione attuati spesso acriticamente. Basti pensare alla logica del comando, basata su un meccanismo lineare di causa – effetto: io do un ordine e mi aspetto che sia eseguito. Così non funziona, perché i sistemi viventi possono solo essere “disturbati”, orientati in una logica condizione-conseguenza che sposta il focus sui processi e sul reale coinvolgimento delle persone».

Dalla lettura del Suo saggio emerge una specifica concezione di impresa, intesa non solo come strumento economico per generare profitto a vantaggio dei proprietari/azionisti e incrementare il cosiddetto PIL, bensì come luogo in cui si crea valore e si contribuisce alla realizzazione del bene comune. Ma, come?

verso una economia civile altrapagina mese marzo 2021 3«Un’impresa non può ridursi alla sola produzione di profitto, come avviene nella concezione neoliberista. L’impresa è tale in quanto capace di svolgere una funzione economico-sociale e il profitto diventa il compenso, il premio per aver creato valore. Si inverte la prospettiva: non è più il profitto che crea valore, ma la creazione di valore che genera il profitto. Da qui la domanda fondamentale: cosa intendiamo per valore oggi? Per questa strada si giunge alla evidente comprensione che nel nostro sistema il valore viene ridotto alle transazioni monetarie tra soggetti economici, derubricando, ad esempio, i disastrosi effetti ambientali del nostro modo di agire a semplici esternalità. Come purtroppo la pandemia ci sta chiaramente dimostrando, non può esistere bene individuale senza bene comune; io non posso stare bene se non starai bene anche tu. E non si tratta di una visione buonista, bensì della semplice constatazione che facciamo tutti parte dello stesso sistema. È la filosofia di Tommaso D’Aquino prima e poi dei grandi economisti italiani di fine Settecento, nonché l’applicazione ai sistemi sociali delle regole che governano l’evoluzione, dove non è vero che domina il più forte ma il più adatto».

Lei accusa di miopia il sistema capitalistico neoliberista e richiama i danni ambientali e sociali da esso provocati. Quale organizzazione sociale e quale economia possono salvare l’umanità dall’autodistruzione? Quale modello di impresa per un’economia civile?

«Viviamo in un mondo capovolto in cui sono invertite le determinanti del valore. Basti pensare al paradosso dell’agricoltura biologica. Oggi per fare agricoltura biologica si deve certificare il processo produttivo, ovvero intraprendere un percorso oneroso per certificare il non fare, ossia il fatto di non utilizzare sostanze dannose per l’uomo e per l’ambiente. Ora sarebbe forse più normale il contrario, e cioè che la certificazione gravasse su chi utilizza tali sostanze e non su chi non le usa. Oppure pensiamo ancora alla parola che tutti ci definisce “consumatori”. Ognuno di noi per essere funzionale allo sviluppo del PIL deve essere un consumatore, ovvero, letteralmente, un distruttore di risorse. Non si tratta di “utilizzare” ma di consumare, e più siamo capaci di distruggere più siamo funzionali al sistema. Da tutto ciò, io credo, potremo uscire solo grazie alle spinte dal basso, grazie al fatto che le persone sono oramai stanche di questo modello di vita che dal consumo dei beni porta poi al consumo delle nostre stesse vite. Così nascono nuovi movimenti come Economy of Francesco, Fridays for Future, tutti segnali che anche il consumo sta cambiando e le persone iniziano a scegliere e a prendere le proprie decisioni di acquisto in modo critico, basandosi su valori diversi come la fiducia, il rispetto, la coerenza delle imprese produttrici. Tale cambiamento indurrà sempre più le imprese a modificare il proprio approccio, ma non sarà sufficiente se i nostri decisori non sapranno cogliere la necessità di adottare un nuovo modello teorico. L’economia civile può essere il punto di riferimento: imprese, enti pubblici, società civile, diventano i tre protagonisti che operano in modo coordinato all’interno del perseguimento del bene comune. Una grande rivoluzione culturale è ciò di cui abbiamo realmente bisogno».

Il «naturalismo economico» che caratterizza il nostro sistema sociale non ha futuro, perché - come Lei ci ricorda - «non ci può essere una crescita infinita in un sistema finito». Ma ritiene possibile bloccare la crescita? E come? Sposando le teorie della decrescita felice? Auspicando una crescita qualitativa?

«Come dice Fritjof Capra un sistema vivente che non cresce è un sistema morto, la crescita è una qualità intrinseca dei sistemi viventi. Parlare di decrescita felice per me è un non senso. Ancora una volta la natura ci viene in aiuto. In natura non esiste una crescita lineare e illimitata, in natura vige un equilibrio crescita /decrescita. Questo significa che in un sistema chiuso, affinché alcune parti crescano, altre devono decrescere. Una visione consapevole non può non prendere atto di questo e quindi dobbiamo sapere che non potremmo continuare a puntare su una crescita quantitativa che accontenti tutti sulla base dell’attuale paradigma consumistico. Ciò è stato fino ad oggi possibile solo a costo di mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenza, attraverso la distruzione sistematica delle risorse del pianeta. Ora è il momento di cambiare e orientare il sistema verso la crescita qualitativa, dove ciò che cresce non saranno più i consumi, ma la qualità della nostra vita e delle nostre relazioni, dove si comprerà di meno ma meglio, dove i prezzi dei prodotti rifletteranno il vero valore / disvalore creato e dove si imporrà una visione dell’uomo come parte della natura, capace, grazie alla sua evoluzione culturale e tecnologica, di prosperare in armonia con il resto del sistema vivente». ◘

Di Matteo Martelli

 


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