A Cura di GIO2
“Un vento / d’urto – un’aria / quasi silicea agghiaccia / ora la stanza …”: ritornano alla mente i versi di Caproni alla notizia, in questo inverno freddo e desolato, della morte di Franco Loi, nella sua Milano, proprio agli inizi di questo nuovo drammatico anno. E si affollano in testa i pensieri, i versi letti e riletti, i ricordi: come quello di un suo lungo, caldo, fraterno abbraccio di tanto tempo fa, per il quale non potrò ora mai più dirgli grazie. Franco Loi, l’ultimo dei nostri grandi poeti del secolo scorso, almeno stando alla sua collocazione nell’imprescindibile Meridiano Mondadori di Mengaldo Poeti italiani del Novecento, che gli dedica (a lui, un poeta dialettale) proprio l’ultimo capitolo: punto conclusivo, e dunque rilevantissimo, di una vicenda poetica secolare. Ma, come si sa, l’Antologia di Mengaldo è del 1978, e quindi c’era ancora spazio per altre grandi voci, che infatti sarebbero venute: anche nella poesia dialettale, o per meglio dire neo-dialettale, di cui Loi è stato certamente maestro e punto di riferimento fondamentale, e la cui affermazione come qualcosa di sicuramente grande e nuovo risale proprio agli anni settanta, gli stessi che vedono la pubblicazione dei primi libri di Loi. È a partire da lì che si comincia a scoprire, assai più e più consapevolmente che nel passato, una poesia dialettale esposta alla sperimentazione e alla reinvenzione soggettiva, in modi sempre più liberi e distanti da un dialetto inteso come residuo di una lingua d’uso. È il momento che Ferdinando Bandini riassumerà in una sua formula felicissima come passaggio dalla “lingua della realtà” alla “lingua della poesia”. Non che tutto questo avvenga all’improvviso e del tutto inatteso: anche nella nostra tradizione dialettale ci sono prodromi straordinari di questa tendenza (si pensi solo a grandissimi come Giotti, Tessa, Marin, Noventa, e poi Pasolini, Zanzotto …), e un grande merito dei neo-dialettali è stato anche quello di farci riaccostare a questa tradizione sotto una luce nuova, e con rinnovato entusiasmo. (Per un approfondimento chiarificatore sul tema consiglio la lettura dell’Introduzione a Dialetto lingua della poesia, ed. Confine, di Ombretta Ciurnelli).
E Loi, di padre sardo e madre emiliana, nato a Genova dove ha vissuto i suoi primi anni, si approprierà del dialetto milanese come sua “lingua della poesia” da immigrato. E potrà dire: “mi sono sempre sentito libero nell’uso e nell’invenzione linguistica”.
Il milanese, questo milanese con varianti e contaminazioni impreviste, non è dunque la sua lingua madre, è piuttosto la lingua dei fratelli, dei fratelli proletari incontrati (e amati) nelle periferie di Milano. Sempre nel segno di un senso tragico (ma capace anche di allegria) della Storia, dai partigiani massacrati a Piazzale Loreto (“in due par morta la cità”) alla dura militanza nei cosiddetti anni di piombo, e oltre … Ci mancherà, Franco Loi, ma (come diciamo sempre) per fortuna abbiamo i suoi libri, per sentirlo ancora e ancora, così fraterno come pochi. Come fraterna è stata la lingua limpidissima e la poesia di Franco Scataglini, l’altro grande poeta dialettale che, come Loi, abbiamo potuto incontrare e ascoltare anche qui a Perugia, in anni lontani, grazie al meritorio lavoro di divulgazione della poesia fatto da Ilde Arcelli e dal suo Merendacolo.
Di Scataglini, poeta in un dialetto anconetano “ntra campi e cità”, aristocratico e popolare, abbiamo una spiegazione semplice e definitiva della sua scelta linguistica, come opposizione e liberazione rispetto a una lingua letteraria codificata dalla convenzione (dal Bembo in poi), che aveva definito “frigida”: cioè, se ho ben compreso, non solo e non tanto fredda, esornativa, lontana eccetera, ma propriamente incapace di corrispondere a un gesto d’amore. Un gesto d’amore, come è la poesia. ◘
Di Walter Cremonte