Lesbo: al nome dell’isola greca e della poetessa Saffo, che qui è vissuta 2600 anni fa, oggi si sovrappone, con doloroso disaccordo, la tragedia immane del campo profughi, di cui da mesi e mesi tutti i media parlano: una situazione drammatica, immobile, bloccata. Un limbo che è divenuto un inferno.
Monica Attias, volontaria della Comunità di Sant’Egidio – una realtà ecclesiale presente in diversi Paesi del mondo molto attiva sul fronte delle migrazioni – e responsabile del corridoio umanitario dalla Grecia verso l’Italia, ci racconta la sua esperienza.
La comunità di Sant’Egidio ha incentrato la sua attenzione sull’isola di Lesbo, una periferia dimenticata al limite dell’Europa. Qual è il motivo di questa scelta?
«Dal 2016 abbiamo attivato un programma di aiuti dal Libano e dall’Etiopia. Ma ci siamo resi conto che anche in Europa c’era e c’è una grave situazione relativamente al fenomeno migratorio. Oggi in Grecia ci sono ben 25 campi profughi. Perciò in conformità al trattato di Dublino, che prevede che si possano trasferire dei richiedenti asilo da un Paese all’altro quando quest’ultimo accetti di farsene carico, abbiamo stipulato un accordo con il Ministero dell’Interno (22 settembre 2020) che prevede il trasferimento dall’isola di Lesbo in Italia di 300 persone, di cui un primo gruppo arriverà entro marzo. La particolarità del progetto “corridoi umanitari” è il fatto che i richiedenti asilo vengono accolti dalla società civile in case, parrocchie, istituti pubblici o privati, tramite la Comunità di Sant’Egidio. Già dal 2016 attraverso accordi specifici, con l’aiuto della Elemosineria Apostolica (quindi del Vaticano) abbiamo portato in Italia 69 persone».
Com’è la situazione nell’isola, dal punto di vista sanitario e psicologico? Sembra davvero un campo di detenzione di vecchia memoria?
«La situazione è terribile, le condizioni di vita sono al limite della sopravvivenza. Non c’è acqua corrente, non c’è elettricità (se non per un’ora al giorno) né riscaldamento, non si possono riscaldare i pasti. Le persone non possono lavarsi normalmente. In estate ci si lava nell’acqua del mare (la tendopoli è vicino alla riva), ma in inverno è freddo e questo non è possibile. Le organizzazioni umanitarie stanno attrezzando al di fuori del campo docce e servizi, ma per una popolazione di 7200 persone questo comporta dei turni. Le donne, la maggior parte musulmane, soffrono in particolare l’impossibilità di lavarsi all’aperto, di spogliarsi… È tutto molto difficile. Pensiamo alla difficoltà di notte per andare in bagno, al buio. C’è paura e non mancano gli episodi di violenza. I richiedenti asilo non hanno accesso alle cure mediche, possono essere ricoverati in ospedale solo per le urgenze. I pasti vengono distribuiti dall’esercito soltanto una volta al giorno. La nostra Comunità prepara pasti caldi sul posto ma non possiamo entrare al campo: per accedervi bisogna compiere un percorso burocratico complicato che non abbiamo ancora completato. Così organizziamo autonomamente fuori del campo punti di distribuzione di generi alimentari e distribuiamo i pasti nei pressi dell’ingresso, ove confluiscono i migranti.
Da un punto di vista psicologico c’è una disperazione diffusa. Come potrebbe essere altrimenti? Tanti bambini non vogliono più giocare, non escono dalle tende; ci sono episodi di autolesionismo, depressione. L’ambulatorio di psichiatria di MSF ha trattato nel corso dell’ultimo anno 49 casi di minorenni che hanno tentato il suicidio. È il modello dell’hot spot, presente in molti altri Paesi».
Come è peggiorata la situazione dopo la pandemia?
«I profughi sono in lockdown continuo dal febbraio dell’anno scorso, senza interruzioni. Anche quando i Greci hanno potuto usufruire di un allentamento delle restrizioni durante alcuni periodi, per loro si è fatta eccezione, giacché devono sottostare ad altre regole rispetto alla popolazione civile. Questo ha comportato una esasperazione collettiva, perché ha impedito loro di frequentare gli sport, i corsi di lingua, qualche attività ricreativa… Da febbraio 2020 nessuno può uscire dal campo, se non per i motivi contemplati dalla legge. I capifamiglia possono farlo solo con permessi speciali e a turnazione. Per fortuna i contagi che sono arrivati al campo non hanno prodotto grandi numeri e gravi malattie. I rifugiati sono quasi tutti giovani e questo dato ha fatto sicuramente la differenza».
I migranti cercano la libertà per trovare in Europa lavoro e dignità. Cosa altro state facendo per permettere loro di uscire dall’isola, per andare verso un futuro diverso?
«Per fare questo corridoio umanitario abbiamo negoziato con il governo greco e con quello italiano. Sono operazioni complicate e stiamo lavorando su più fronti. Da un lato stiamo cercando di incrementare la nostra presenza in loco per sostenere la popolazione con cibo, medicine, abiti. Dall’altro, ci stiamo impegnando per far crescere nell’opinione pubblica italiana la disponibilità a sostenere con una sponsorship i beneficiari di futuri corridori umanitari. Stiamo anche cercando in Francia e in Germania i contatti e i rapporti utili per far ricongiungere i richiedenti asilo con la loro famiglia allargata. Auspichiamo e stimoliamo un dibattito che porti a una legislazione, per tutta Europa e non solo per l’Italia, che regoli le sponsorizzazioni private (fra le parentele, i gruppi religiosi, le aziende, le famiglie…): la cosiddetta sponsorhip adottata da decenni in Canada, in maniera tale da promuovere dei canali di ingresso con visti regolari e combattere il traffico illegale di persone, che è molto attivo. Oltre a quello del Mediterraneo centrale, in particolare si registra un nuovo flusso dall’Africa verso la Turchia: a Istanbul e poi a Izmir o Bodrum, da dove per mezzo di gommoni i trafficanti conducono questa povera gente nelle isole dell’Egeo».
Come giudica la popolazione locale la presenza dei migranti? La considera con fastidio? Vi sono forze politiche che soffiano sul fuoco?
«La popolazione locale all’inizio, nel 2015, ma anche prima (la migrazione dei siriani inizia fin dal 2011), era ben disposta verso i migranti, che erano in transito verso la Grecia continentale e venivano accolti anche nelle case private. Poi dal 2016, ovvero dal patto fra Europa e Turchia, le cose sono cambiate, come sappiamo. La Turchia, per i siriani, è stata considerata “Paese sicuro” e le isole dell’Egeo sono divenute un filtro molto forte alle porte dell’Europa, che non consente più ai profughi di raggiungere gli altri Paesi europei. I campi di passaggio sono diventati campi permanenti, chiusi. Il campo di Moira dal 2015 ha cominciato ad aumentare a dismisura fino ad accogliere 20.000 persone a luglio 2020. A settembre, quando comunque una parte dei migranti era stata portata a terra, ci fu il famoso incendio della tendopoli, che distrusse praticamente tutto. La popolazione si ritrovò nelle strade, nei boschi, senza riparo. Una tragedia. Oggi i migranti sono collocati in un nuovo campo di tende, che è stato costruito in fretta con l’aiuto di UNHCR. Dovrebbe essere un accampamento “temporaneo”, ma ci sono segnali che inducono a pensare che il campo rimarrà permanente: si stanno edificando dei muri di cinta intorno…
La grande concentrazione di rifugiati che si è andata creando negli anni ha prodotto un mutamento nell’atteggiamento generale dell’opinione pubblica: è cresciuto un grande malcontento, anche perché l’estrema destra del Paese ha messo in atto una propaganda anti-immigrazione, come avviene del resto in altri Paesi d’Europa».
Quale tipo di lavoro state facendo, soprattutto sul piano educativo e scolastico, per aiutare i più piccoli?
«I bambini, comprensibilmente, sono coloro che soffrono di più. Questi costituiscono un terzo di tutta la popolazione delle tendopoli: sono tantissimi. Poi ci sono anche minori (15-18 anni) non accompagnati. I bambini non possono andare a scuola, non hanno diritto all’istruzione, il che in termini di diritti umani è inaccettabile. Durante l’estate giovani volontari della Comunità di Sant’Egidio provenienti da tutta l’Europa si ritrovano nell’isola per organizzare corsi di inglese ai bambini (che imparano velocemente) e agli adulti. Quest’estate siamo riusciti ad organizzare con 250 bambini una “scuola della pace”».
Come vede il futuro di questi dimenticati?
«L’unica soluzione possibile al momento è che gli Stati d’Europa con un atto di generosità, attraverso un’equa distribuzione del carico che questo comporta, accolgano i profughi nei rispettivi Paesi. Del resto la Grecia è già gravata da notevoli difficoltà economiche che non le consentono di affrontare da sola il costo dei percorsi di integrazione». ◘
Di Daniela Mariotti