Politica internazionale
Sarà questo un 2021 particolarmente difficile per Cuba, inaugurato il primo gennaio con i 62 anni di sovranità nazionale a 90 miglia dagli Stati Uniti, che da sempre l’avevano considerata la “Perla delle Antille”, la propria piscina di casa (casinò e bordelli inclusi).
È stato infatti varato il “piano di riordinamento” del sistema economico a partire dalla riforma monetaria, che ha visto l’abrogazione della doppia valuta nazionale, con l’uscita di scena del Cuc (peso convertibile), circolante nel settore turistico e per l’acquisto di beni importati; mentre è rimasto solo il Cup (peso cubano) impiegato per il pagamento di salari, pensioni, tasse, affitti, trasporti pubblici… Un doppio standard che aveva causato squilibri e disuguaglianze ormai insostenibili, a mala pena compensati da sussidi e sovvenzioni. Il Cuc nell’ambito statale era equiparato al Cup, ed entrambi in parità solidale col dollaro, mentre nel funzionamento dell’economia aperta il Cuc era cambiato a 25 Cup.
In una frase, senza addentrarci in tecnicismi, si sta passando da un sistema sostanzialmente fittizio a una economia reale. Una decisione necessaria che veniva posposta da anni e che è stata varata nel momento peggiore: dopo la perdita dei consistenti aiuti da Caracas, il rovesciamento della politica di “riavvicinamento” di Obama da parte di Trump che ha tagliato viaggi e rimesse verso l’isola (oltre che reinserito Cuba nella lista nera dei Paesi che patrocinano il terrorismo); e infine, come se non bastasse, la pandemia, che ha compromesso il turismo, unica fonte di entrata di divisa estera.
Ora il cambio è stato fissato per tutti a 24 pesos per dollaro. Con il governo, retto dal sessantenne Miguel Díaz Canel, che ha disposto preventivamente un aumento delle retribuzioni di cinque volte, da un minimo equivalente a 87 dollari a un massimo di 396. Ma i prezzi sono schizzati verso l’alto in proporzione ben maggiore, provocando le proteste generalizzate della popolazione. Tanto che le autorità hanno dovuto ridimensionare immediatamente gli aumenti effettuati sulle tariffe di acqua ed elettricità, oltre che ritardare il superamento della tessera di razionamento. Il rischio insomma è quello di un’inflazione galoppante e di una crescita della disoccupazione, aggravate dalla penuria di dollari e dalla mancanza di produzione, soprattutto di beni di prima necessità. Anche se le riforme punterebbero per l’appunto nel medio periodo a favorire la produzione di beni e servizi, la creazione di piccole e medie imprese private e gli investimenti internazionali.
Una situazione, questa, caratterizzata da incertezza e confusione, e probabilmente ancor più problematica del fatidico período especial degli anni '90, sopravvenuto alla caduta del Muro di Berlino, con l’azzeramento del sostegno dell’Urss, quando tutti pensavano che Fidel Castro e il corso rivoluzionario fossero spacciati. E invece il socialismo tropical ha resistito per altri trent’anni, come a dire che la Rivoluzione Cubana non era un semplice artificio tenuto in piedi dai sovietici e da un ferreo controllo sociale. Anche se è vero che per uscire da quella crisi fu determinante l’avvento (nel ’98) di Hugo Chávez in Venezuela, con l’attivazione del suo generoso flusso di petrolio (e non solo) all’isola caraibica. Ma Chávez se ne è andato anzitempo.
Come se non bastasse, oggi Cuba è orfana del carisma del suo líder máximo (scomparso nel 2016) ma anche dell’ultraottantenne pur vivente fratello, Raul, che ha già lasciato le redini del governo un paio d’anni fa e che nel prossimo VIII° Congresso del Partito Comunista Cubano di aprile abbandonerà pure la carica di segretario generale, per dare definitivamente il passo a una nuova generazione che non partecipò al rovesciamento della dittatura di Fulgencio Batista.
Non che Cuba difetti di classe dirigente. È che ora i nuovi dirigenti dovranno sbrigarsela più che mai in solitudine, facendo i conti con le logiche del mercato e del mondo globale e con gli effetti di un embargo commerciale e finanziario dagli anni sessanta via via sempre più asfissiante. Con una caduta del Pil nel 2020 dell’11% (come nel lontano terribile 1993) e con l’incapacità, pur dopo significativi condoni, di pagare i restanti debiti al Club di Parigi (85 milioni di dollari lo scorso anno) e a Pechino come a Mosca (quest’ultima ha persino sospeso, per insolvenza, i lavori di modernizzazione dell’infrastruttura ferroviaria dell’isola).
Intanto la popolazione esprime sempre più la propria insoddisfazione, attraverso la rete dei social che nell’isola funzionano alla “occidentale”, ossia senza soffrire di particolari censure. Come nello scorso novembre, quando un gruppo di duecento giovanissimi artisti e rapper (organizzati nel Movimento di San Isidro) aveva intrapreso uno sciopero della fame per l’arresto di uno di loro, per essere poi dispersi dalla polizia. Un intervento repressivo che ha suscitato, subito dopo, la mobilitazione di intellettuali e figure della cultura cubana in generale (nonostante che diversi di quei poco più che ragazzi non avessero nascosto le loro simpatie trumpiane), con il risultato di essere convocati tutti dal viceministro della cultura per l’apertura di un inedito “dialogo”. Che è poi quello che auspicano i vescovi cubani, incoraggiati da papa Francesco, cui Cuba deve molto.
Certo potrebbe arrivare un filo di ossigeno dal nuovo inquilino alla Casa Bianca. Joe Biden ha annunciato che toglierà Cuba dalla ridicola lista dei Paesi terroristi. E che ripristinerà i voli per le visite dei cubano-americani della Florida, oltre che le loro preziose rimesse. Ma a partire da quando? E con il rischio comunque di quella insidiosa “contaminazione” cui Obama (e l’allora suo vice) avevano sicuramente pensato nel riaprire le relazioni diplomatiche fra i due Paesi nel dicembre 2014, dopo che ben 11 presidenti Usa (diversi dei quali con doppio mandato) si erano alternati (invano) con la promessa che il regime cubano sarebbe caduto.
Dicevamo che la pandemia è giunta a dare un colpo micidiale alla congiuntura economica. Eppure, dal punto di vista sanitario, Cuba (con poco più di 11 milioni di abitanti) ha registrato appena 25mila contagi (2.200 ogni milione di abitanti, venti volte meno che l’Italia) e solo 219 morti. Questo perchè fin dal primo momento si è messo in prima linea il diritto alla salute (con la drastica sospensione del turismo) rispetto al danno economico. Non solo: i centri di ricerca sono ormai alla fine del percorso di produzione del vaccino cubano, chiamato con orgoglio el soberano (il sovrano). A confermare la vocazione per una sanità e un’istruzione generaliste gratuite e all’avanguardia, rispetto al resto del disgraziato subcontinente latinoamericano.
Ma i giovani cubani soffrono; da tempo, e ora più che mai. Durante il passato período especial mi chiedevo perché Fidel non aprisse un confronto all’interno del partito, dopo due intere generazioni in fin dei conti cresciute e formatesi durante la rivoluzione. Ho dovuto rispondermi più avanti amaramente come fosse già di per sé un miracolo che Cuba avesse oltrepassato il mezzo secolo di sovranità. E che a sole 90 miglia dagli Stati Uniti d’America la sovranità nazionale è forse incompatibile con la pratica democratica; perlomeno quella che solo noi del ricco emisfero nord-occidentale abbiamo avuto il privilegio di conoscere dal secondo dopoguerra (a cosa oggi sia poi ridotta è un altro discorso). ◘
di Gianni Beretta