Alimentazione. Intervista ad Alfredo Fasola, primo coltivatore biologico in Umbria
Sostenibilità, resilienza, transizione ecologica… Sono le parole che, con sempre maggior insistenza,vengono pronunciate negli ultimi tempi dai nostri politici, o, per meglio dire, dai nostri tecnocrati chiamati in soccorso alla politica. Ma cosa deciderà il governo Draghi su gas, petrolio, carbone, allevamenti intensivi, rifiuti? Se lo chiede anche Greenpeace in un appello rivolto allo stesso Draghi perché dalle parole si passi ai fatti, sapendo che “il diavolo può nascondersi nei dettagli e sono questi ultimi che faranno la differenza nel Recovery Plan che il nuovo governo scriverà nelle prossime settimane”. Tra le emergenze individuate dall’associazione ambientalista c’è al primo posto quella legata agli allevamenti intensivi degli animali, tema trattato negli ultimi tempi anche in questo giornale.
L’enorme aumento della diffusione degli allevamenti animali su scala industriale e globale non è soltanto correlato alla diffusione di malattie che, alla stregua di epidemie, si diffondono proprio a causa del consumo di carne, ma anche questione legata all’uso che si fa dei terreni agricoli.
Ne parliamo con Alfredo Fasola che a Torre Colombaia, sulla strada che collega Perugia a Marsciano, dà vita da anni a un’azienda agricola biologica: 60 ettari di campi coltivati biologicamente a cereali, legumi e semi oleosi, incastonati in 100 ettari di bosco secolare di querce e di conifere.
Girando in lungo e in largo - si fa per dire in tempi di lockdown - anche qui in Umbria si vedono campi e campi coltivati a favino, un legume destinato all’alimentazione degli animali. Li si nota pure a Torre Colombaia.
«Certo, è proprio così. Noi fino a una quindicina di anni fa avevamo una trentina di pecore. Ma poi, con l’agnellino di Pasqua al nostro ristorante agrituristico non ce la siamo sentita più! E allora abbiamo cambiato radicalmente strada nel nostro ristorante, passando a una proposta che escludesse proteine animali. E ci siamo concentrati sulla coltivazione dei legumi, proteine vegetali, inserendola abbondantemente nelle nostre rotazioni colturali: lenticchie, ceci, favino appunto, senza scordare il grano saraceno, anch’esso fonte di ricche proteine per l’alimentazione umana».
Mangiare meno carne significa tra le altre cose contribuire a ridurre sensibilmente la Co2. Ma se dobbiamo variare le nostre abitudini alimentari quanto deve ancora cambiare il metodo per coltivare?
«Partiamo proprio dal petrolio. In agricoltura biologica è bandito l’impiego dell’urea, il concime chimico che deriva dal petrolio. E nemmeno si devono usare i diserbanti tra cui il glifosato, cancerogeno (Round up), che invece usano a go go gli agricoltori convenzionali, anche quelli della c.d. “agricoltura integrata”, abbondantemente finanziata dai Piani di Sviluppo Rurale, Umbria compresa. Vorrei aggiungere che abbiamo riscontrato, e anche attuato, uno stretto parallelismo tra l’alimentazione umana e quella da dare al terreno».
Cioè?
«Se noi, per un’alimentazione sana ed equilibrata, abbiamo bisogno di proteine oltre che di carboidrati (e grassi, anche qui meglio se vegetali), l’alimentazione del terreno ha bisogno di azoto, ma non sintetico ed eccessivo da urea, quanto piuttosto naturale e ricco di tanti altri elementi, per una coltivazione equilibrata e bilanciata. Ristabiliamo l’equilibrio dell’azoto con la rotazione delle colture e con la concimazione verde, sostituendola per quanto possibile a quella marrone (letame) attraverso il sovescio del favino, piantato a settembre e sovesciato, interrato, a marzo, prima della semina di girasole e miglio».
Altra grande questione è l’uso di diserbanti e di concimi chimici impiegati nell’agricoltura tradizionale. Vogliamo ricordare che derivano tutti dal petrolio?
«Certamente. Ma io vorrei sottolineare anche un altro fatto che ho vissuto nelle chiacchierate “dialettiche” con gli agricoltori a me vicini e spesso miei amici. Che dicevano: “ma dai, buttaci un po’ di urea nei tuoi campi che sembrano un po’ anemici e poco pompati, che poi tanto nessuno se ne accorge...”. Perché fino agli anni '80-'90 questa urea costava pochissimo, e allora dai dai, si convincevano i contadini – complici Università, Associazioni Agricole e soprattutto le lobby dei vari Consorzi Agrari e ditte fornitrici – a usare tali concimi a go go, fino a 150 (!) unità di azoto (chimico) a ettaro con il risultato che il surplus che alla pianta non serviva veniva dilavato nelle acque superficiali e sotterranee e/o disperso nell’aria. È stato calcolato che ben il 30% del totale delle emissioni climalteranti derivi proprio da queste emissioni “non volute”. E che ben il 10% di tutte le emissioni climalteranti derivanti dal sistema agricolo-alimentare nel suo complesso provenga proprio da queste emissioni “non volute”. Tanto poi c’era la Pac che passava i soldi dallo Stato ai contadini, che li rigiravano appunto ai vari Consorzi Agrari e fornitori di concimi. E così il sistema si chiudeva (ma sulle spalle dei contadini, oltre che sul danneggiamento dell’equilibrio chimico-fisico del terreno)».
Oggi questo sistema si sta rivelando sempre più in crisi. Molte aziende convenzionali si starebbero per convertire alla Transizione Agricola, alla Agroecologia....
«Noi lo facemmo nel lontano 1987 e tutti allora ci presero per matti. Oggi un po’ meno. Con pochissimi aiuti pubblici dell’Università e della ricerca: qualche spicciolo arriva, ma spesso su tematiche che non sono quelle urgenti come quelle connesse al cambiamento climatico, con tutti i fenomeni estremi di siccità e del suo contrario, gli allagamenti».
Non risulta che il Recovery Fund, Draghi in testa, si occupi con la necessaria attenzione di questa urgentissima “transizione”.
«Il pur bravo Professor Cingolani, Ministro dell’Ambiente, forse un po’ inesperto di politica, ha osato citare il problema degli allevamenti intensivi. È stato subito subissato dalle aggressioni lobbistiche delle varie associazioni di allevatori, macellai, importatori, industrie alimentari.
Secondo i dati Istat nei primi cinque mesi del 2020 è stato registrato un calo del 4,5% nel settore delle carni bovine e del 15,8% in quello dei suini.Vedremo se questa tendenza si consoliderà. Certo che qui in Umbria sembra che la gente voglia seguitare imperterrita ad abbuffarsi di hamburger, “fiorentine”, prosciutto, salsicce e salami».
Come convincerli a consumare legumi?
«Per chiudere in modo virtuoso il cerchio di una corretta rivoluzione agricolo-alimentare ecosostenibile non si può non prevedere, e finanziare, la gamba finale di questa rivoluzione.
Ed è quello che, nel nostro piccolo, stiamo cercando di fare – Covid permettendo – appena riapriremo il nostro ristorante agrituristico di Torre Colombaia: rendere appetibile, gustoso, ricco dei nostri tradizionali condimenti il consumo di questi legumi, riscoprendo ricette tradizionali basate su di essi (vedi il preziosissimo volumetto di Rita Boini Cucina Umbra). I nostri nonni umbri mangiavano la carne non più di una volta alla settimana: il resto delle proteine lo prendevano appunto da ceci, fagioli, lenticchie e soprattutto favino, più facile da coltivare (ottimo poi ripassato in padella con soffritto di cipolla e con contorno di cicoria).
E anche qui non basta la bacchetta magica: occorre partire dall’educazione alimentare nelle mense scolastiche, come aveva iniziato a fare l’Aiab regionale, con la fornitura sistematica di ingredienti biologici nelle mense di Perugia e di Città di Castello, fino all’inizio del Covid nel febbraio del 2020. L’educazione ecologica nelle scuole (che si vorrebbe affidare all’Eni!!??) non può non partire dalla prima scelta eticamente corretta: un buon mangiare». ◘
Di Maurizio Fratta