Città di Castello. Raccontare la vita e la società attraverso i personaggi: Ignazio Zangarelli residente nella frazione di Riosecco
Ignazio Zangarelli di memoria ne ha molta e ne fa dono volentieri. Classe 1925, secondo di 4 figli, vive a Riosecco da sempre. Ci accoglie con immediata gentilezza e la postura di chi è ancora saldo di fronte alla vita e al tempo. E d’altra parte il suo spirito, la sua interpretazione dell’esistenza, non lo sono certamente meno. Il suo racconto muove dalla Storia, quella con la S maiuscola che abbraccia la Grande Guerra, quella stessa Storia che non è stata capace di cambiare la sua, vissuta in un idealismo coerente votato alla pace, alla gentilezza. E alla fede.
«Le racconto un po’ di storia. Io fino a 18 anni facevo parte dell’Azione Cattolica. Conosco i comandamenti a memoria. Ma con il fascismo, amica bella, non si poteva parlare di comandamenti. Il quinto dice “Non uccidere”. E come si fa la guerra se rispetti il Vangelo?».
«Ho fatto la scuola agraria, su indicazione del mio padrone. Compravo il concime, vendevo le bestie, tenevo il libretto colonico e facevo i rendiconti. Facevo le parti da solo, quando si vendemmiava, quando si raccoglievano le patate. A fine anno consegnavo le ricevute per fare i consuntivi, ma il padrone le strappava. Si fidava di quello che scrivevo, di quello che facevo. Così anche dopo, in fabbrica. Fui messo di prima categoria. E l’ho sempre fatto con la gentilezza, non con la forza. La mia fede è che Dio si porta con l’amore. Non col fucile. Ero contadino e andavo a scuola, caso unico perché i contadini a scuola non andavano, ma il padrone insistette. Diceva “io non ho fattori e guardiani. Lo farai tu”. Ero bravo a scuola. Mi piaceva. Poi ci fu la chiamata del Fascismo. Ci fecero marciare a Perugia, tutti insieme, e alla fine ci interrogarono. Quando fu il mio turno io risposi. Le sapevo. Mi chiesero cosa facessi e dissi “contadino!” “Avete visto? Un contadino che ha risposto a tutte le domande!».
Quando chiamarono la sua classe, Ignazio, che non era fascista, presentò domanda per fare il carabiniere. Era convinto che ormai la guerra stesse per terminare. La ricostruzione di quel suo periodo da militare, con le indicazioni delle date, delle sedi, è precisissima. A partire dal servizio prestato a Firenze, Santa Maria Novella prima e Santo Spirito poi, fino a Vicchio del Mugello, dove avrebbe dovuto rintracciare i ragazzi sfuggiti all’arruolamento: «Dovevo presidiare la zona, con ispezioni a piedi e in bicicletta, cercare i disertori. Quindi dovevo cercare ragazzi che avessero età da essere arruolati. Mi imbattei in un ragazzo che sollevava il letame. Aveva la mia età. La madre guardava me e la mia divisa, dalla loggia della casa. Mi fissava. Ma poi vide che sorridevo al figlio, che lo salutavo con cordialità. Mangiai prosciutto e formaggio al loro tavolo. E non denunciai».
«Il 1° aprile mi mandano alla Caserma di Via della Scala a Firenze. E mi fecero sfilare il moschetto e mi diedero un fucile nuovo. La Repubblica Sociale di Mussolini aveva fondato un battaglione apposta per trovare i partigiani. Nelle mostrine d’argento era incisa la lettera M. Ancora non so se significasse Morte o Mussolini. La Pasqua era il 9 aprile. Il Sabato Santo un commilitone mi propose di passare la Pasqua a San Polo in Chianti, presso la famiglia. Quando rientrammo il lunedì mattina il capitano comunicò la partenza per Parma, prevista per la sera. Il battaglione era un battaglione prevalentemente fascista, con noi carabinieri più giovani a rinforzo. Non avevamo mai legato con loro. Andammo a Parma, ma il commilitone di San Polo il 16 decise di non rientrare, di disertare. Pensai. Il giorno successivo, con la scusa di andar a recuperare la mia cassetta con gli effetti personali a Firenze, partii. Presi il treno alle 21, da Parma. Sono arrivato a Firenze alle 10 del mattino dopo, sotto i colpi degli Inglesi, e da lì ad Arezzo. Non sapevo come tornarmene a casa, ma ho incontrato un barrocciaio che mi ha indicato la littorina in partenza. Sono sempre stato fortunato, per questo ringrazio. Non avevo biglietto, ma ero in divisa. E sono sceso a Città di Castello: lì ho sbagliato, avrei dovuto fermarmi a Riosecco. Quando stavo scendendo, i fascisti mi hanno bloccato e portato a Palazzo Vitelli a Sant’Egidio. Ma ho avuto fortuna anche lì, hanno creduto alla versione per cui avevo una licenza per recuperare i miei effetti e sono riuscito ad andare a casa. Era il 19 aprile. Dopo 10 giorni sono arrivati i carabinieri e i fascisti a chiedere di me, io ero nascosto in un fosso. Mio padre fece vedere una cartolina che avevo spedito da Parma giorni prima e credettero davvero che non ci fossi, anche se da Firenze già mi stavano ricercando. Sono tornati più volte, minacciando i miei genitori di fucilazione se avessero mentito. L’8 maggio la Repubblica Sociale compì un rastrellamento massiccio a Città di Castello, lo stesso giorno in cui pretesero di interrogare Gabriotti. Io ero nascosto in un campo di grano. Gabriotti fu fucilato il 9. Dai miei ex compagni di plotone».
Dopo la liberazione di Roma, a giugno, i Tedeschi indietreggiavano facendo razzia lungo il percorso della ritirata, anche in Altotevere, occupando le abitazioni. «Dormivano nei nostri letti, che rimasero pieni di cimici finché non bruciammo le reti: le sentivamo mordere quando faceva buio, si nascondevano con la luce. La guerra crea disastri e sofferenze. Non c’è Dio in guerra. Due guerre mondiali tra cristiani, milioni di morti. I Tedeschi dissero che Dio era con loro, ma quale Dio? In Italia che la Chiesa cattolica abbia appoggiato Hitler… Mussolini… a me non va giù. Io questa verità l’ho vista. L’ho vissuta».
Al termine della guerra, ormai libero, Ignazio torna al lavoro e alla costruzione della propria famiglia. Ha conosciuto quella che sarà sua moglie per 54 anni, Maria Stella detta Marina, a maggio del ’43 durante un pellegrinaggio a Canoscio: una conoscenza approfondita al termine delle funzioni religiose. Per l’onomastico, lei gli spedisce una cartolina di auguri in cui si dichiara. Ma arriva la guerra. E li separa. Solo al passaggio del fronte possono frequentarsi davvero e poi sposarsi.
La spiccata curiosità, l’interesse genuino e la naturale inclinazione a un impegno attivo lo portano a tesserarsi nell’immediato dopoguerra con il PSI. «A Palazzo Bufalini c’era la sede del Partito Socialista. Il segretario era Ricci. Era l’ottobre del '45 e fui tesserato all’inizio dell’anno successivo. Ho avuto incarichi politici tra cui l’amministrazione dell’ospedale, soprattutto l’azienda agraria, a metà anni '60. C’erano circa 24 poderi da gestire. Il governo era in mano a DC e PSI. Il presidente era democristiano e io socialista, ma moderato, democratico. Andavo d’accordo con la Chiesa e andavo d’accordo con i contadini. Quando c’erano le riunioni con il Vescovo, andavo in Vescovado. D’altra parte anche il babbo del mio padrone era ateo e gli mise a nome Demonio, ma noi lo chiamavamo padron Demo. Un giorno mi chiese di venire a Messa…», ma le persone vanno giudicate dal comportamento, poi aggiunge: «non per quante volte vanno in chiesa».
Ignazio parla di una politica vissuta e sentita, casa per casa, strada per strada, in cui al fervore delle idee corrispondeva anche un profondo senso del rispetto. Anche nel proselitismo elettorale gli avversari avevano tra loro un codice irrinunciabile, che li portava a scontri duri, ma anche a dividersi le zone per non ostacolarsi, o a combinare gli incontri perché il confronto fosse giusto, come tante piccole tribune elettorali domestiche. Le discussioni non mancavano nemmeno in famiglia. Con il cugino Giuseppe, con cui aveva condiviso il percorso politico socialista, le discussioni potevano proseguire per ore. I due andavano a potare alberi e viti assieme, e per non interrompere il confronto durante il lavoro, si dividevano lo stesso oppio. Lavoravano e litigavano sulla stessa pianta, con lo stesso sentimento e idee differenti. Poi Giuseppe si iscrisse al Psiup.
Ignazio ha attraversato quasi un secolo, lo ha interpretato in prima persona e se ne fa voce narrante. Non ha mai smesso di interessarsi del mondo, di costruire relazioni e rapporti, di studiare, di meravigliarsi riparando il proprio senso morale dagli attacchi del tempo. Lo ha fatto così bene che anche nel suo semplice intercalare “amica bella” è facile sentire la verità in entrambe le parole: la vita può essere amica e la vita è senz’altro bella. E lui l’ha sempre intesa così. Quando gli chiedo “Ignazio, cosa non deve assolutamente mancare in questo articolo?”, mi dice: «Scrivi dei miei genitori. Devo ringraziare loro per tutto questo. Me lo hanno dato loro». «Passa un’ombra, ma è un attimo: la vita è un paradiso e in Paradiso si gioisce. Ti piace ballare? Io ballo benissimo!». Con passo leggero ed entusiasmo, da 96 anni. ◘
Di Chiara Mearelli