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Latte nero. La pedagogia interiore di Patrizia Gioia

Rubrica E sia poesia a Cura di GIO2
96 annii altrapagina aprile 2021

«E quanto più il vuoto è un crepaccio d’ombre privato del fondo, tanto più questo stesso vuoto ci punge e feconda».

Sopra Tita, una bambina di otto anni, si addensano nuvole scure finché la morte del padre per tumore diventa una enorme dolorosa goccia di china nera che cade sulla sua vita, sconvolgendola. Quella stessa Tita su una gamba sola – così s’intitola il primo libro – la ritroveremo sempre protagonista, in età adulta, anche nel secondo e ultimo libro-capitolo, Il rovescio di Maria. Tra questi due tempi narrativi c’è un intervallo di almeno trent’anni, rimasto quasi imperscrutabile, al pari degli ‘anni perduti’ di Gesù. Scomodo il misterioso vuoto narrativo evangelico che intercorre tra il Gesù dodicenne e quello trentenne per due ragioni: la prima risiede nel fatto che nei due libri della Gioia si compie, simbolicamente, una trasformazione cristica dell’io di Tita; la seconda ragione sta nel perché quegli ‘anni oscuri’ rappresentano, non nel contenuto ma per il loro essere esistenza inesistente, la sostanziale materia a cui le parole della Gioia intendono restituire senso.

Questi due libri in gran parte ‘autobiografici’ ci mostrano, in effetti, quanto sia vitale stare sempre anche nelle nostre ombre. Tita è sempre tesa a snidare le nostre parti più oscure, col fine di integrarle e tenerle in equilibrio con quelle esposte alla luce del sole. Per Gioia l’inquietante, il perturbante, il mostruoso, il negativo hanno dignità, vanno considerati quanto la serenità, la catarsi, la bellezza, la positività. Per amare fino in fondo Maria, madre di Gesù, bisogna compiere un viaggio anche nel suo rovescio, nelle sue più inaccettabili e ripugnanti ombre, altrimenti di lei avremo solo un’immaginetta idealizzata, per nulla veritiera, da tenere nel portafoglio o da pregare incorniciata sul comodino.

Il tempo di vita perduto nel caso della storia di Tita è figlio del non avere mai avuto una madre, pur avendola avuta costantemente al suo fianco. Vale a dire che l’amore, in questo caso l’amore materno mai ricevuto, che dovrebbe nutrire e sostenere ogni creatura, non solo per Tita è rimasto inespresso, ma anzi, in quanto ‘amor mai’, esige nutrimento e sostegno. Eppure, proprio a causa di questo ‘vuoto d’amore’ accade in Tita, per suo merito, qualcosa di inaspettato, taumaturgico: il dolore si tramuta in amore. Da quel vuoto oscuro nato dalla perdita del padre amorevole e dalla presenza-assente della ‘madre mai’, quella bambina scova in sé una forza prodigiosa che ricolora di bianco il latte materno mai ricevuto. Tita trasforma quell’infanzia rubata, che nemmeno il perdono potrà più restituirle o farle vivere come avrebbe dovuto essere, nella sua resurrezione.

Non troverete mai poesie in cui ci si piange addosso ma anzi, di Tita bambina vi innamorerete, per quanto è simpatica e disarmante, pur nella sua rigorosa educazione. Con la Tita adulta de Il rovescio di Maria, invece, stabilirete un’amicizia sodale, di quelle che durano per sempre.

In entrambi i libri troverete un io poetico in continuo ascolto e ricerca di sé e dell’altro da sé. Le moltiplicazioni delle madri e dei padri letterari, dalla Lamarque alla Bachmann, da Hesse a Rilke, per citarne alcuni fra quelli più facilmente rintracciabili, hanno certamente colmato quel vuoto di confronto e dialogo, essenziale, per poter diventare ‘grandi’ non solo d’età. Tuttavia anche i maestri nascondono un ‘rovescio’ da cui la Gioia si preserva. L’autrice sa che per trovare una propria voce non deve restare nel cono di luce dei propri maestri; sa bene che ad un certo punto bisogna camminare nelle proprie zone d’ombra senza più farsi influenzare da nessuno. Altrimenti non diventeremo mai la nostra voce; le nostre parole non incarneranno mai la nostra poesia. Trovare la propria poesia significa per Patrizia Gioia trovare la propria liturgia, il proprio ritmo all’interno di un ritmo più vasto e universale; significa accordare il respiro del proprio silenzio con il respiro silenzioso dell’universo “tanto che intendo / quel che tu canti / e s’accende la meraviglia”.

Nei versi di Tita troverete “l’emozione, che quasi ci sgomenta, / di quando una cosa felice cade” (Rilke), perché il perduto resterà, almeno in quella forma, perduto per sempre, e allora capirete quanto è maledettamente importante vivere nel presente; scoprirete “come è difficile il perdono / decreare il male fatto”, sentirete la disperazione struggente che forse quel vuoto d’amore non si riuscirà mai a colmarlo, ma sentirete anche che “la parola / ci è data / per amare”, che si può partorire la propria madre, che anche Cristo può tenere in braccio Maria e che, alla fine, siamo tutti poveri diavoli, comprese le madri che si strozzano con il proprio cordone ombelicale; sentirete che per sanare il male occorre “una pedagogia interiore” e che in questo “continuo inizio / di misteriosa mancanza” in cui siamo perennemente immersi, quando il seno non divora più, il latte cessa di essere nero. ◘

di Dome Bufal

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