Il viaggio di papa Francesco in Iraq è stato innanzitutto un pellegrinaggio penitenziale. L’Occidente ha una memoria molto labile di quello che ha provocato dopo la Prima Guerra mondiale, con la dissoluzione dell’impero turco e la costruzione di nuovi Stati disegnati con la riga e il compasso, senza alcuna attenzione alle popolazioni che li abitavano. L’importante era il controllo delle fonti energetiche, magari al prezzo di due guerre che hanno trasformato la “mezzaluna fertile” in un campo di macerie.
Per questo Francesco ha chiesto perdono agli iracheni e ha invitato i leader delle varie confessioni religiose a incontrarsi nell’enorme spazio dei valori umani comuni in nome di una fraternità universale. Nella piana di Ninive, di fronte allo ziggurat sumero, ha ricordato la figura di Abramo, padre della fede delle tre religioni monoteiste, spingendole a superare quel fondamentalismo nel quale si impigliano nella difesa della propria identità. È un ritorno all’indietro che porta dritti dritti verso lo scontro delle civiltà, invece di alzare lo sguardo verso il cielo. Non è un caso che Francesco abbia voluto incontrare l’ayatollah al-Sistani, il vegliardo novantenne che ha alzato la voce in difesa dei più deboli, delle minoranze schiacciate dalla violenza terrorista dell’Isis. È stato un autentico profeta, ha avuto il coraggio di definire terroristi coloro che adoperano la religione per scopi politici.
In fondo questi due leader, papa Francesco e al-Sistani, tentano di evitare la violenza per costruire un Iraq unito e pacificato. È necessaria però una nuova visione politica che non costringa questo popolo a diventare la ruota di scorta degli interessi di un Occidente dominato dal liberismo imperversante.
Di Achille Rossi